Roma, 29 sett – Secondo un’infografica della World of statistics tra i Paesi che effettuerebbero più arresti per commenti online, in cima compare il Regno Unito con oltre dodicimila fermi in un solo anno. Il dato ha suscitato sorpresa: la patria del parlamentarismo liberale e dell’habeas corpus appare come il Paese con la polizia più attiva nel reprimere il linguaggio digitale. Dietro il numero, però, c’è una storia più complessa di leggi nate in epoca pre-social, di prassi amministrative discutibili e di un clima culturale sempre più segnato dal conflitto su migrazione, diritti civili e identità di genere.
Nel Regno Unito dodicimila arresti per post offensivi
Nel 2023 le forze di polizia di Inghilterra e Galles hanno effettuato 12.183 arresti in applicazione della Section 127 del Communications Act 2003 e della Section 1 del Malicious Communications Act 1988: norme che puniscono l’invio, su reti pubbliche, di messaggi “grossolanamente offensivi, indecenti, osceni o minacciosi” oppure inviati con l’intento di causare ansia e angoscia. Si tratta di leggi pensate vent’anni fa per sms e telefonate, oggi usate come base per perseguire post, tweet, commenti, meme. Eppure solo una frazione minima di quelle persone – circa 1.119, meno del dieci per cento – è arrivata a condanna. Ne risulta un apparato repressivo che interviene a monte con facilità ma che viene spesso ridimensionato dai tribunali a valle, lasciando però dietro di sé l’esperienza di un fermo di polizia, l’esposizione mediatica e lo stigma. Il quadro si è ulteriormente complicato con l’Online Safety Act 2023, che introduce nuovi reati di comunicazione e attribuisce all’Ofcom poteri di regolazione sulle piattaforme digitali. Lungi dall’essere una singola “legge bavaglio”, quello britannico è dunque un mosaico di norme stratificate che oggi vengono applicate a un ambiente digitale infinitamente più esteso di quello per cui erano state concepite.
La prassi dei “non-crime hate incidents”
Un ruolo decisivo nel creare l’immagine di “polizia del linguaggio” l’hanno avuto però le prassi amministrative, in particolare la categoria dei “non-crime hate incidents”: segnalazioni registrate dalla polizia come episodi d’odio verso gruppi protetti anche quando non costituivano reato. Bastava che un terzo percepisse un post come ostile a un gruppo etnico, religioso o a persone LGBT perché il fatto finisse in un registro ufficiale. Il caso emblematico è stato quello di Harry Miller, ex poliziotto, che nel 2019 vide i propri tweet critici verso l’ideologia gender segnalati e registrati come NCHI. Miller fece ricorso e la Corte d’Appello gli diede ragione, dichiarando sproporzionata la prassi rispetto al diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 della Convenzione europea. Quel verdetto ha costretto le autorità a rivedere le linee guida e nel 2023 è entrato in vigore un nuovo codice di pratica che limita fortemente la registrazione di NCHI. Di recente anche il capo dell’ispettorato di polizia ha invitato a sospendere definitivamente questo tipo di schedatura, riconoscendone l’effetto corrosivo sulla fiducia pubblica.
Casi emblematici tra satira, odio e identità di genere
Accanto alle questioni di principio, non sono mancati i casi di cronaca che hanno alimentato la percezione di una deriva censoria. L’arresto dell’autore televisivo Graham Linehan a Heathrow, per un’indagine su presunta istigazione alla violenza legata a post sull’identità di genere, ha acceso un’ondata di polemiche sul confine tra critica “gender-critical” e molestia. Ancora più netto l’esempio di Lucy Connolly, condannata a due anni e sette mesi di carcere per aver scritto sui social che si sarebbe dovuto “dare fuoco” agli hotel che ospitavano richiedenti asilo: qui è stata contestata l’istigazione alla violenza. Durante le rivolte anti-immigrazione del 2024, altri utenti sono stati incriminati per aver fomentato l’odio razziale online. Ma l’opinione pubblica ricorda anche vicende opposte, come il celebre “Twitter Joke Trial”: un uomo incriminato per aver scherzato su un attentato a un aeroporto, condanna poi annullata in appello perché priva di reale minaccia. Questi casi dimostrano che la linea di demarcazione resta sottile e che il contesto e l’intenzione concreta del messaggio contano tanto quanto il testo. Insomma, nessuna disposizione britannica vieta opinioni “eretiche” in quanto tali, ma la combinazione di definizioni vaghe – “grossolanamente offensivo”, “indecente” – e la pressione politica e mediatica sull’hate speech hanno favorito un enforcement più solerte proprio sui temi caldi: immigrazione, islam, identità di genere. Ne risulta un effetto di selezione dei bersagli che alimenta il sospetto di parzialità ideologica.
Dal Regno Unito una lezione per l’Italia
L’esperienza inglese suggerisce alcune lezioni. La prima è che la libertà d’espressione si difende nei dettagli: nei testi di legge, certo, ma anche nelle linee guida della polizia e nei protocolli di piattaforma. La seconda è che un sistema che moltiplica arresti senza moltiplicare condanne genera un senso di insicurezza giuridica e di autocensura che pesa sul dibattito pubblico. Infine, il nuovo baricentro dell’Online Safety Act, con l’Ofcom e le big-tech incaricate di rimuovere preventivamente contenuti “a rischio”, sposta l’equilibrio dalla libertà alla sorveglianza preventiva, spesso a spese di utenti e piccoli editori. Per l’Italia, che spesso si ritrova a discutere di hate-speech, il caso britannico è un avvertimento: norme generiche come “offensivo” o “indecente” rischiano di trasformarsi in un’arma discrezionale; la tentazione di scaricare sulle piattaforme responsabilità penali porta a rimozioni preventive e a silenziamento di opinioni legittime; la cultura amministrativa può comprimere la libertà non meno di una legge mal scritta. In un’epoca di polarizzazione, il confine tra la tutela da abusi reali e la polizia della parola è labile. Chi difende la libertà di critica sulle grandi fratture del presente – immigrazione, ideologia gender, sicurezza – deve esigere leggi chiare, garanzie robuste e limiti stretti alle prassi di polizia.
Le tentazioni italiane e come smascherarle
Ogni volta che il legislatore interviene sul “linguaggio d’odio” con definizioni vaghe e cariche di valenza morale – ieri con il Ddl Zan, oggi con la proposta leghista sull’antisemitismo – si ripete lo stesso schema: si sposta il confine del reato dalla condotta concreta alla parola sgradita, affidando a magistrati e burocrazie un potere discrezionale che prima o poi finisce per colpire il dissenso. Cambia il bersaglio ideologico, non il metodo. È esattamente l’errore che ha portato Londra a dodicimila arresti l’anno per “post offensivi”: un apparato nato per combattere abusi reali che diventa strumento di controllo del discorso pubblico. Se non si vuole replicare in Italia quella spirale di arresti senza giustizia, bisogna respingere la tentazione di legiferare sull’offesa percepita e difendere con chiarezza il principio che solo i fatti violenti, non le opinioni, devono essere materia di diritto penale.
Sergio Filacchioni