Roma, 1 ott – Nelle settimane che hanno preceduto il voto, il circuito filorusso internazionale ha provato a imporre un copione: Moldavia sull’orlo del caos, governo “totalitario”, imminente escalation con la Transnistria. Alexander Dugin ha messo la cornice ideologica, la macchina d’influenza del Cremlino il resto: voto di scambio, disinformazione, attacchi informatici, mobilitazione della diaspora “pilotata”.
La Moldavia nel passaggio stretto delle urne
Il verdetto delle urne ha però demolito lo spauracchio: il PAS di Maia Sandu ha vinto con oltre il 50%, relegando il Blocco Patriottico filorusso (il cui simbolo è una stella rossa con dentro una falce e martello) a poco più del 24% e assicurandosi la maggioranza dei seggi. Non un “testa a testa”, come ci era stato spacciato anche da certi giornali italiani (magari sono gli stessi che ridacchiano ripensando a “Clinton in testa nei sondaggi”) ma un mandato netto all’integrazione europea. Lo certificano i dati ufficiali e le principali agenzie, mentre anche l’OSCE riconosce elezioni competitive, pur segnate da interferenze e disinformazione. Il “metodo” usato contro Chișinău è noto: reti di fake news, operazioni coperte e denaro sporco. Pochi giorni prima del voto, le autorità hanno arrestato 74 persone per un presunto piano di disordini coordinato da ambienti russi; in parallelo, inchieste giornalistiche (compresa un’operazione sotto copertura in stile BBC World Service) hanno ricostruito reti pagate per drogare TikTok e Facebook con contenuti anti-Sandu e sondaggi fasulli preparati per delegittimare l’esito. Nonostante ciò, la narrazione catastrofista non ha attecchito.
La narrazione di Mosca sconta un sovranismo pragmatico
Mosca ha provato a ribaltare il risultato anche a posteriori, gridando alla “vittoria negata” della sua platea di sostegno all’estero: il Cremlino ha accusato la Moldavia di aver aperto solo due seggi in Russia per “centinaia di migliaia” di elettori. Ma questa denuncia arriva dopo un voto che ha visto ampia partecipazione dentro e fuori dal Paese e che i partner europei hanno salutato come uno stop concreto alle interferenze. Decisivo, inoltre, il voto dei giovani, molto presenti ai seggi: un indicatore che la leva generazionale sta consolidando la rotta europea. Sul terreno strutturale, l’arma del gas si è rivelata meno risolutiva di quanto sperato dal Cremlino. Che Gazprom controlli il baricentro energetico moldavo è un fatto, ma il taglio delle forniture e il ricatto dei prezzi non hanno spostato il consenso in misura sufficiente; al contrario, hanno fissato nell’opinione pubblica un’equazione semplice e molto più pragmaticamente sovranista di certi sproloqui: dipendenza energetica = vulnerabilità politica. È uno dei motivi per cui la piattaforma europeista ha retto, pur tra rincari e malcontento.
Dugin crea un nuovo spauracchio
In questo quadro, le dichiarazioni di Alexander Dugin – secondo cui il governo di Chișinău sarebbe “totalitario” e pronto a “trascinare la Moldavia in guerra contro la Transnistria” – non sono un commento accademico, ma un tassello della strategia narrativa del Cremlino. Servono a due scopi: interno, per negare la sconfitta elettorale del fronte filorusso presentandola come effetto di repressione e brogli; e esterno, per alimentare in Occidente l’idea che Sandu sia una leader autoritaria pronta a destabilizzare i confini, così da fornire argomenti ai settori della destra sovranista europea che vedono in Mosca un baluardo “anti-liberal”. Non è un caso che proprio i network mediatici vicini al filorussismo italiano ed europeo abbiano ripreso le frasi di Dugin senza contestualizzarle, rilanciandole come “denuncia” di un presunto nuovo fronte di guerra. In realtà, nessun passo concreto di Chișinău indica aggressioni alla Transnistria, mentre le autorità moldave hanno agito per difendere la regolarità del voto. Lo “spauracchio Moldavia” serve dunque a trasformare la vittoria europea in un atto di aggressione immaginario, offrendo al pubblico sovranista un nuovo mito di accerchiamento da parte dell’Occidente: da “la Russia non ci vuole attaccare” a “la Moldavia scatenerà una guerra” il passo è stato maledettamente breve.
Il vero rischio non è la Moldavia che “provoca”
Due riflessioni strategiche si impongono. Primo: se la Russia investe – dentro e fuori le regole – per spingere i propri referenti politici, perché l’UE non dovrebbe fare altrettanto? Non parliamo solo di simmetrie “opache”, ma anche di sostegno trasparente: alfabetizzazione mediatica, debunking proattivo, sicurezza cibernetica, tutela del voto all’estero, programmi economici tangibili nelle aree più fragili (Gagauzia in testa). Secondo: le elezioni sante e immacolate non esistono, ma il voto conta eccome. Senza la pressione dell’urna – cioè senza partecipazione – la difesa dell’interesse nazionale e della sovranità si svuota: o magari qualcuno vorrebbe farci credere che le elezioni “belle e buone” sono solo quelle che per strano caso favoriscono la Russia? La Moldavia ci ha ricordato con chiarezza la differenza tra narrazione e realtà. Resta la Transnistria, con il suo contingente russo e l’enorme deposito di Cobasna: un punto di vulnerabilità che Mosca potrà riattivare sul piano psicologico e propagandistico. Ma anche qui vale la lezione di queste settimane: un governo legittimato, relazioni strette con Bruxelles e gestione attiva delle minacce ibride riducono lo spazio agli “spauracchi” costruiti a tavolino. Il vero rischio non è la Moldavia che “provoca” la Russia; è la Russia che prova a costruire, ogni volta, un nuovo spauracchio.
Le profezie di Dugin sfidano Fassino
In conclusione, il voto di Chișinău non è affatto il trionfo di una visione del mondo su un’altra: è realismo europeo applicato a un Paese di frontiera che probabilmente non ne vuole più sapere del Cremlino (come dargli torto?). In ogni caso, è stato un voto che ha smontato un racconto e imposto un’agenda: difendere la sovranità significa anche disinnescare le narrazioni tossiche. La Moldavia lo ha fatto. Ora tocca all’Europa rendere tangibili i benefici di quella scelta – rapidamente e fuori dai salotti – e agli altri, specialmente in Italia, smettere di prendere per oro colato le profezie di Dugin, che assomigliano sempre di più a quelle di Piero Fassino.
Sergio Filacchioni