Roma, 13 nov – A Brescia si assiste alla scena più prevedibile della politica italiana contemporanea: un’iniziativa che non si è ancora svolta, un luogo non ancora comunicato, e già il circuito mediatico-istituzionale ha costruito un’emergenza morale, parlando di “raduno dell’ultradestra”, “teorie xenofobe” e “minacce alla convivenza”. Il Corriere della Sera ha fatto da apripista, attribuendo al Comitato Remigrazione e Riconquista intenzioni apocalittiche, mentre il sindaco Laura Castelletti ha scelto la condanna preventiva come strumento politico.
A Brescia crescono le preoccupazioni del sindaco
Quello che però la stampa non racconta — o racconta solo in forma distorta — è che il Comitato non è un fantasma ideologico, né un’operazione propagandistica: è una realtà in rapida espansione, che nelle ultime settimane ha registrato un’ondata di nuove adesioni da parte di associazioni e amministratori locali da tutta Italia. Le dichiarazioni del sindaco Castelletti rientrano perfettamente nel nuovo conformismo politico: basta evocare la parola “sostituzione etnica” per evitare di affrontare qualsiasi dato sulla sicurezza, sull’integrazione fallita, sulle criticità dei quartieri popolari, sull’illegalità strutturale prodotta da anni di gestione emergenziale dell’immigrazione. La “fermezza” esibita dal sindaco non è una posizione: è un riflesso. È l’idea, ormai radicata in certi ambienti, che tutto ciò che non rientra nel modello unico dell’accoglienza debba essere censurato come pericoloso. Come se discutere di rimpatri, riforma dell’asilo, modelli culturali incompatibili o pressioni demografiche fosse di per sé un atto sovversivo. Le realtà antifasciste locali, prevedibilmente, hanno chiesto di vietare l’evento o di negare spazi pubblici: la solita “difesa della democrazia” che passa per la limitazione della libertà altrui.
La forza dei movimenti identitari
Al netto delle polemiche e delle formule rituali, la vicenda di Brescia suggerisce un punto politico preciso: nel momento in cui il dibattito pubblico italiano è paralizzato da parole-tabù e reazioni automatiche, qualsiasi proposta alternativa sull’immigrazione — che sia rimpatrio, remigrazione o semplice revisione dei flussi — viene immediatamente trattata come un’emergenza democratica. È un riflesso che rivela l’insicurezza delle istituzioni ma anche la forza “segreta” dei movimenti identitari organizzati e coesi su un obiettivo. Il fatto che un comitato ancora in fase di lancio abbia provocato una tale sovra-reazione conferma che esiste un vuoto politico enorme: da anni nessuna forza di governo ha il coraggio di affrontare la questione migratoria fuori dalla retorica dell’accoglienza o dalla gestione emergenziale. Quel vuoto oggi viene occupato da realtà territoriali che non chiedono permessi, ma aprono un dibattito. Ed è proprio questo — più dei contenuti, più dei toni — a inquietare amministrazioni e gruppi di pressione.
Riaprire il dibattito dal basso
Perché se una rete di associazioni, consiglieri comunali e cittadini riesce a imporsi nell’agenda pubblica senza finanziamenti, senza partiti alle spalle e senza l’appoggio della grande stampa, significa che il Paese è molto più mobile, inquieto e politicamente aperto di quanto raccontino i salotti televisivi. Ed è qui che si gioca la partita dei prossimi mesi: non tra “ultradestra” e “accoglienti”, ma tra chi vuole impedire il dibattito e chi vuole riaprirlo.
Vincenzo Monti