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Non chiamateli progressisti: la Gen Z è molto più interessante di quanto crediate

by Sergio Filacchioni
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Generazione Z politica

Roma, 14 nov – Negli ultimi mesi la Generazione Z è tornata al centro dell’attenzione pubblica, spesso raccontata come un fronte compatto di ragazzi che parlano lo stesso linguaggio culturale, condividono gli stessi simboli e si muovono nella stessa direzione politica. In Italia, le manifestazioni studentesche pro-Pal e le proteste antigovernative hanno alimentato questa narrazione: una generazione creativa, digitale, progressista, apparentemente omogenea nelle sue parole d’ordine.

Il racconto di una Generazione Z progressista

Ma proprio questa immagine, così rassicurante e lineare, invita a una domanda più seria: la Gen Z è davvero un blocco monolitico? È davvero un unico soggetto compatto, una “tribù” politica orientata in maniera naturale verso il progressismo? Oppure la superficie pop — la cultura condivisa, i meme, l’estetica digitale — nasconde una realtà molto più complessa? La bandiera di One Piece sventolata nelle piazze di mezzo mondo è un indizio di compattezza? Questo è il punto da cui partire, perché ciò che emerge dai dati internazionali smentisce in modo netto la lettura semplicistica della “generazione progressista”. La risposta – anzi “le” risposte – emergono con chiarezza nelle ricerche condotte da Alice Evans, visiting fellow a Stanford e tra le studiose che meglio hanno osservato i mutamenti valoriali delle nuove generazioni. I suoi lavori, basati su dati comparativi raccolti in decine di Paesi, mostrano un fenomeno che raramente trova spazio nel dibattito pubblico italiano: la Gen Z è, in realtà, una generazione profondamente divisa, la più internamente polarizzata degli ultimi decenni. E la frattura non corre lungo linee economiche o sociali, ma lungo quella più elementare: il genere.

Gli studi di Alice Evans

Secondo gli studi della Evans, negli Stati Uniti, le donne sotto i trent’anni si definiscono liberali in percentuali altissime, mentre gli uomini della stessa età si collocano molto più a destra, con uno scarto che ha raggiunto i trenta punti in appena sei anni. In Germania lo scenario è identico, con una differenza di trenta punti tra ragazze e ragazzi, mentre in Polonia quasi la metà dei giovani maschi 18–21 ha votato per un partito sovranista, contro una minoranza nettamente più ridotta delle coetanee. Regno Unito, Corea del Sud, Cina, Tunisia: le stesse dinamiche compaiono ovunque. Le generazioni passate, pur attraversate da divisioni politiche, tendevano a muoversi come blocchi più o meno compatti. Oggi no. La Gen Z appare invece come una generazione biforcata, dove giovani uomini e giovani donne non solo non convergono, ma maturano sensibilità politiche e morali opposte pur vivendo negli stessi contesti educativi, culturali e digitali. Come si è arrivati a questa divergenza?

Percorsi che prendono direzioni diverse

Una delle chiavi di lettura offerte è la diversa elaborazione del ciclo #MeToo. Per molte giovani donne si è trattato di un momento formativo, in cui prendere parola significava maturare una coscienza politica nuova. Attorno a questa esperienza si è consolidata una subcultura progressista, molto più netta di quella delle generazioni precedenti. Per molti ragazzi, invece, quel cambiamento è stato percepito come una ridefinizione dei confini della propria identità sociale, generando una risposta più cauta, più diffidente, talvolta più conservatrice. Non un rifiuto organizzato, ma un percorso parallelo che ha preso un’altra direzione. Il risultato non è la tradizionale polarizzazione politica: è la formazione di due subculture interne alla stessa generazione, due cornici morali che si definiscono a vicenda. Le ragazze tendono a collocarsi su posizioni progressiste riguardo diritti, razza, immigrazione, giustizia sociale; i ragazzi sono molto meno allineati a queste priorità, e in alcuni Paesi si stanno spostando attivamente verso posizioni conservatrici, nazionaliste o identitarie. È un movimento lento ma costante, che non riguarda le generazioni più adulte e che si concentra proprio tra gli under 30.

La tentazione di destra

Allo stesso tempo infatti sta emergendo un fenomeno parallelo che sempre più commentatori iniziano ad affrontare: la crescente attrazione di una parte dei giovani verso movimenti di destra più radicali, spesso nati e alimentati negli ecosistemi digitali. Non si tratta della destra tradizionale o moderata, ma di vere e proprie correnti che mettono in discussione il perimetro liberal-democratico, rifiutano le istituzioni culturali dominanti – in particolare università e media – e rivendicano un atteggiamento apertamente iconoclasta. Figure come Curtis Yarvin, teorico della “nuova destra” americana e riferimento di quella che lui stesso definisce la “giovane destra”, esprimono bene questa sensibilità. Le loro idee circolano soprattutto online, nelle comunità dove i giovanissimi uomini trovano un linguaggio alternativo a quello progressista dominante. La crescita di questo universo è confermata dai sondaggi su entrambe le sponde dell’Atlantico, che registrano un aumento dell’identificazione giovanile con movimenti populisti, anti-immigrazione e nazionalisti. In Italia il tutto assume un volto parossistico: mentre i media progressisti cantano la GenZ come speranza, allo stesso tempo ne sono profondamente inquietati.

La socialità digitale produce distanza

A questa dinamica contribuisce il modo in cui i giovani vivono oggi lo spazio digitale. La narrazione della “generazione connessa” farebbe pensare a un’unica comunità globale, ma la realtà è più articolata: gli algoritmi creano ecosistemi distinti, camere d’eco separate, comunità che raramente si incrociano. Ragazzi e ragazze abitano piattaforme diverse, seguono influencer differenti, partecipano a conversazioni che non si sovrappongono quasi mai. La socialità digitale non produce omogeneità: produce distanza. In questo quadro, quindi, parlare della Gen Z come di un fronte progressista unico è un errore di prospettiva. È guardare solo la superficie — il linguaggio comune dei meme, degli anime, dell’ironia — e scambiare una cultura condivisa per un’ideologia condivisa. La cultura pop unifica l’estetica, non le visioni del mondo. La politica, invece, si sta strutturando lungo linee che i simboli generazionali non riescono a nascondere.

Identità divergenti che riaprono la storia

La domanda iniziale, allora, ritorna con più forza: la Generazione Z è davvero il blocco compatto che molti raccontano? I dati suggeriscono il contrario. Stiamo osservando una generazione che costruisce al suo interno identità divergenti, due sensibilità che crescono parallele e spesso in tensione, due modi differenti di interpretare la modernità. Ma non bisogna cadere nella trappola del facile moralismo: tutto ciò non è per forza negativo. Le divergenze tra sensibilità non sono anomalie da correggere ma indicatori di un riassestamento profondo dell’immaginario politico. In ogni epoca i conflitti emergenti hanno raccontato meglio dei simboli di superficie ciò che una società stava diventando. Oggi accade lo stesso. La Gen Z non è un’unica voce, ma un laboratorio di identità in competizione, un luogo in cui le linee del dissenso producono nuove mappe morali e nuovi modi di stare nel mondo. È in questa pluralità dinamica, non nella sua unità apparente, che si intravedono gli aspetti più interessanti per il futuro.

Sergio Filacchioni

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