Roma, 25 nov — A Susa rispunta la chiave inglese, a Roma circola un cartello con scritto “meno femminicidi, più melonicidi”, mentre a Tor Tre Teste una coppia viene assalita in auto da un gruppo di stranieri: rapina, aggressione, violenza sessuale. Episodi diversi, lontani, apparentemente scollegati; eppure, letti insieme, descrivono con precisione chirurgica il punto storico in cui è entrato il Paese. L’Italia non è più attraversata solo da tensioni politiche o sociali: è investita da vettori di violenza che convergono, alimentando una condizione pre-conflittuale in cui il politico e il criminale, l’identitario e il territoriale, non sono più sfere separate ma parti dello stesso sistema nervoso collettivo.
L’Italia riscopre un linguaggio ultraviolento
Da un lato c’è la militanza antagonista che torna a utilizzare un linguaggio di eliminazione fisica come se fosse un registro normale. “Melonicidi” non è uno scherzo ma un segnale (come tanti altri: assalti, imbrattamenti, aggressioni) che indica che una parte del fronte militante considera ormai l’avversario politico non più come soggetto con cui confrontarsi, ma come bersaglio da neutralizzare. È così che iniziano tutte le fasi pre-conflittuali: attraverso parole che cessano di essere retorica e diventano autorizzazione psicologica. L’omicidio metaforico prepara quello simbolico, e quest’ultimo rende pensabile quello reale. Dall’altro lato, la violenza cruda dei quartieri periferici — come Tor Tre Teste — non è più un rumore di fondo, ma un moltiplicatore emotivo. Quando l’aggressione di un gruppo di stranieri contro due ventenni non appare più come un episodio isolato ma come l’ennesimo tassello di un ciclo, la percezione di sicurezza evapora, e a crollare non è solo il senso di protezione individuale, ma il patto minimo che tiene insieme una comunità nazionale.
L’apologia dell’omicidio Ramelli
In questo quadro, lo striscione esibito a Susa — “Fascio morto, concime per l’orto”, con la chiave inglese che colpì a morte Sergio Ramelli, non è folclore antagonista né provocazione da centro sociale. È un marcatore storico. L’indizio visibile di una faglia che si sta riaprendo sotto la superficie. Non scandalizza il contenuto, prevedibile. Scandalizza il contesto: questo gesto emerge in un’Italia dove la temperatura politica sale da mesi, dove la polarizzazione sociale si irrigidisce e dove la simbologia della violenza torna a essere utilizzata come strumento di comunicazione. L’apologia dell’omicidio Ramelli è una dichiarazione di campo. Indica che una parte d’Italia non vive più soltanto in un conflitto culturale, ma si prefigura un conflitto fisico potenziale, in cui l’altro non è un avversario ma un corpo ostile da annientare. È la logica della guerra civile a bassa intensità: prima si disumanizza, poi si normalizza l’idea che il sangue possa essere un epilogo accettabile. Il salto culturale è già stato compiuto.
Prendere atto per non arrendersi al peggio
Quando una società si frantuma, le parole smettono di essere metafore e tornano a essere istruzioni. I simboli di morte esposti in piazza non scandalizzano più, le aggressioni non sorprendono più, i perimetri di sicurezza si sciolgono. È così che un Paese entra in uno stato pre-bellico senza che nessuno lo dichiari: non perché lo scontro sia esploso, ma perché tutti iniziano a comportarsi come se potesse esplodere da un momento all’altro. L’Italia, oggi, è già in cammino su quella linea sottilissima. Ma prenderne atto non significa arrendersi al peggio: significa evitare di farsi trovare disarmati, psicologicamente e fisicamente. Riconoscere la fase in cui siamo entrati è il primo passo per non subirla. La lucidità è già una forma di forza; la preparazione, una forma di difesa. In tempi come questi, ignorare la realtà è pericoloso. Guardarla in faccia, invece, è l’unico modo per restare padroni del proprio destino.
Sergio Filacchioni