Roma, 27 ott – A vent’anni dalle rivolte di Clichy-sous-Bois, che nell’autunno del 2005 incendiarono le banlieue e poi l’intera Francia, la diagnosi di Pierre Brochand — ex direttore della DGSE, i servizi segreti esterni francesi — risuona come un campanello d’allarme non solo per Parigi, ma per tutto l’Occidente europeo. Nel suo intervento pubblicato da Le Figaro Magazine, Brochand non parla di “guerra civile”, ma di qualcosa di più sottile e profondo: un conflitto interno, un lento ma inesorabile sfaldamento della fiducia sociale che costituisce la base stessa della vita collettiva.
La Francia letta da un uomo dei suoi servizi
Secondo l’ex capo dei servizi, le sommosse del 2005 non furono un episodio isolato, bensì il segnale visibile di una frattura che da decenni attraversa la Francia: immigrazione di massa, islamizzazione, separazione comunitaria, crisi dello Stato nazionale. La politica, incapace di recepire il messaggio della maggioranza che chiedeva di fermare i flussi, avrebbe lasciato maturare una crisi identitaria che oggi si traduce in insicurezza, sfiducia, atomizzazione. “Se restiamo a braccia conserte, andremo verso il peggio”, avverte Brochand. “L’epicentro sarà la debacle della fiducia sociale, chiave di volta dei popoli felici”. L’ex direttore della DGSE rifiuta tuttavia il termine “guerra civile”, che presuppone due fazioni autoctone in conflitto. In una democrazia avanzata, osserva, la violenza tra cittadini “di ceppo” non è più concepibile. Le divisioni reali non sono politiche, ma culturali e antropologiche: non più tra destra e sinistra, ma tra universalisti e localisti, tra fautori della dissoluzione globalista e difensori delle radici territoriali. È in questo contesto che la presenza massiccia di popolazioni extraeuropee, portatrici di modelli di vita e di codici culturali divergenti, si trasforma da problema amministrativo a fattore geopolitico interno. “Preferisco parlare di confronto interno, esposto a ingerenze esterne, piuttosto che di guerra civile”, afferma Brochand, descrivendo un conflitto ibrido, dove la questione migratoria si intreccia con la fragilità dello Stato e con l’individualismo esasperato delle società occidentali.
Un magma di tensioni sociali
L’immagine che propone è quella di un “fiume sotterraneo” che scorre sotto la superficie del quotidiano: un magma di tensioni sociali, economiche e identitarie che esplode periodicamente in saccheggi, sommosse o attentati. Non si tratta, dice, di un’apocalisse imminente, ma di un lento processo di disgregazione che avanza per accumulo di contraddizioni. L’integrazione, una volta possibile, ha perso efficacia oltre una certa massa critica. “L’immigrazione è una grandezza non scalabile: la qualità muta con la quantità”. La chiave di lettura è demografica. Brochand parla di un “capovolgimento di maggioranza etnico-religiosa” in marcia, spinto da un tasso di natalità asimmetrico e da un modello di cittadinanza che naturalizza più di quanto assimili. In questa prospettiva, le aree metropolitane diventano il laboratorio di un futuro possibile: segmentazione territoriale, economia parallela, clientelismo, controllo religioso o criminale del territorio. Il rischio non è solo la perdita dell’ordine pubblico, ma la rottura del principio stesso di appartenenza nazionale. Per spiegare la relativa calma sociale, Brochand individua tre grandi “ritardanti”: l’evitamento (ogni gruppo si ritira nei propri spazi: i ricchi nei centri, i popolari in periferia, gli immigrati nelle banlieue); la pax assistita (sussidi e mediazioni con capi religiosi o di quartiere per comprare tempo); e infine la sedazione culturale dei francesi stessi, anestetizzati da consumo, paura e colpa. “Viviamo — scrive — in una società di individui che teme più di morire che di scomparire”.
Affrontare i dossier senza rimorsi
Eppure, la pressione cresce. Brochand elenca soglie potenzialmente esplosive: uso di armi letali, scontri intercomunitari, zone interdette, saturazione delle forze dell’ordine, intervento militare interno. A questo si sommano reti sociali che amplificano ogni tensione e dipendenze tecnologiche (energia, acqua, trasporti, comunicazioni) che rendono la società vulnerabile a un semplice cortocircuito. “Vivremo sulle pendici di un Etna: non colpirà tutti, sempre, ma sempre più persone, sempre più spesso”. Il suo scenario è cupo ma non fatalista. Brochand indica una terapia, tanto drastica quanto improbabile nel clima politico attuale: riduzione radicale dei flussi d’ingresso, blocco delle regolarizzazioni, revisione delle naturalizzazioni, esternalizzazione delle domande d’asilo, taglio dell’attrattività sociale e sanitaria, rafforzamento della laicità nello spazio pubblico e riforma penale severa contro la recidiva.
Una domanda per tutta l’Europa
Più che un programma politico, è una diagnosi strategica. Brochand ragiona da uomo dei servizi: analizza tendenze, valuta rapporti di forza, misura la capacità di resilienza di una nazione. Ma la sua conclusione ha una portata più ampia. Dietro l’allarme sulla Francia si nasconde una domanda europea: che cosa resta della sovranità culturale di un continente che ha sostituito la coesione con l’individualismo e l’appartenenza con la colpa? La risposta, per ora, resta sospesa tra l’inerzia e l’abisso.
Sergio Filacchioni