
Abbiamo già parlato di come questa riscoperta passi attraverso una rimozione preliminare, cioè la sterilizzazione dell’opera d’arte, la sua decontestualizzazione rispetto all’ambiente che l’ha generata. La sottrazione di un ingrediente alla ricetta originale, una sofisticazione che ricorda quella operata dalla Feltrinelli nei confronti di Charles Bukowski, le cui Storie di ordinaria follia vennero mutilate — e lo sono ancora — di un solo racconto: Svastica.
L’operazione di rimozione coatta non poteva non avvenire anche a Livorno, dove la riscoperta di Irma Pavone Grotta sarebbe stata impossibile senza la censura del suo curriculum politico. Lei, fervente fiduciaria provinciale dei Fasci femminili e moglie di Dino Grotta, nipote di Costanzo Ciano. Viene nominata al vertice dei Fasci nel 1935, dopo la morte di Emma Gamba Niccolai, impegnandosi nel ruolo a più livelli. Non solo aumenta in poco tempo le iscritte, ma parallelamente porta avanti una determinata invettiva contro l’assenza delle mogli di alcuni gerarchi, i quali non avevano «ancora sentito il dovere di iscrivere le donne della loro famiglia al Fascio femminile».
La militanza politica e le parentele della Pavone sono ‘dimenticate’ nella mostra a lei dedicata. Non un accenno nemmeno nel bel catalogo, dove l’artista viene elevata a icona di ‘donna liberata’ quasi da opporre al clima culturale del periodo, di cui Irma incarnava al contrario ogni aspetto. Così avviene lo sbiancamento delle vesti nere e, una volta normalizzata, Livorno ha potuto celebrare una delle personalità artistiche più complete del suo panorama di inizio Novecento. Artista ad ampio raggio, prima pittrice e acquafortista, poi xilografa, si afferma grazie alla sua verve poliedrica e alla rielaborazione personale di stilemi e influssi differenti.

Oscilla armonicamente fra il decorativismo cromatico e l’assolutezza del bianco e nero. Riesce a tradurre le inferenze artistiche in un tratto personale ed elegante, aristocratico.
La versatilità di Irma diventa il jolly necessario ai più illuminati promotori della restaurazione del libro illustrato in Italia, ma non impedirà all’artista di maturare in modo lineare. Le opere della Pavone Grotta non si tramutano in torri di Babele, in paesaggi confusi dove convivono troppi stili. Quando approda alla xilografia, lo fa quasi da ortodossa. Si fa ammirare per l’uso rigoroso della sgorbia, nel rispetto completo del supporto ligneo. Nonostante le sue mani conoscano bene penna e pennello, non le mischiano mai con la sgorbia al momento di incidere il legno. Vengono usate prima, nell’ideazione delle stampe, ma poi lasciate riposare.
«Donna dallo stile virile e dalla concezione originale», viene apprezzata anche per la sua riservatezza, per il suo senso di auto-critica che la spinge al continuo miglioramento, per affermarsi con i fatti e non con le parole. Doti che la porteranno a farsi a sua volta promotrice di artiste emergenti, grazie anche ai ruoli ricoperti nei Fasci femminili livornesi.


Simone Pellico