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“I segreti di Alien”: mostri, dèi e multinazionali dello spazio profondo

by Sergio Filacchioni
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Alien

Roma, 21 lug – Siamo tutti un po’ stanchi degli horror senz’anima. Il mercato contemporaneo del terrore sembra prigioniero di uno schema ripetitivo: jump scare, possessioni, serial killer mascherati. Ma di vero orrore, di quello che ti lascia addosso una sensazione scomoda e duratura, se ne vede sempre meno. Ecco perchè a distanza di oltre quarant’anni, l’Alien di Ridley Scott conserva intatta la sua potenza evocativa: non tanto per le scene di paura, oggi forse meno scioccanti per uno spettatore disincantato, quanto per il messaggio profondo che porta con sé.

I segreti di Alien

Lo capisce bene chi si immerge nella lettura de “I segreti di Alien. Gnosi, orrore cosmico, scienza e IA nella saga degli Xenomorfi“, di Paolo Riberi e Giancarlo Genta (Mimesis, 2024). Un libro che va ben oltre la critica cinematografica: è una riflessione sul nichilismo, sul capitalismo dello spazio e sull’impossibilità dell’uomo di trovare un senso nel cosmo. Andando alla ricerca di una genealogia dell’amoralità, i due autori si imbattono – ovviamente – in Lovecraft. Cosa più della saga di Alien è costruita sul concetto di orrore cosmico? Lo Xenomorfo non è soltanto un mostro: è un simbolo, un’arcaica potenza distruttiva che emerge dagli abissi dello spazio, ma anche dalle profondità dell’inconscio umano. Non si può dialogare con lui, non si può patteggiare: è l’alieno nel senso più radicale, l’alienus latino, “estraneo e avverso”, l’allògeno per antonomasia. Per questo, come scrivono gli autori, «i comportamenti delle creature della saga di Alien si collocano del tutto al di là delle concezioni umane del bene e del male. Sono gli antagonisti del racconto, ma a rigore non sono affatto “cattivi”: sono soltanto alieni, nell’accezione lovecraftiana del termine» (p. 111). Lo Xenomorfo è quindi il male metafisico, cieco e impersonale, come un uragano o un terremoto. Un puro istinto di riproduzione e distruzione che non contempla scelte morali.

L’orrore cosmico

È interessante, da questo punto di vista, confrontare la sua natura con quella degli Yautja, i celebri Predator che, in alcuni film crossover come Alien vs Predator, condividono con gli Xenomorfi lo stesso universo narrativo. I Predator, pur essendo spietati, non incarnano l’orrore cosmico: hanno un codice d’onore, un’etica della caccia che li porta a risparmiare i deboli o chi si dimostra valoroso. Come ricordano Riberi e Genta, «i predatori scelgono di risparmiare le proprie vittime sulla base di un ben preciso sistema etico che, in realtà, ricorda molto da vicino quello delle antiche civiltà della Terra, dai greci agli aztechi: a guidare gli Yautja non è una logica ignota e incomprensibile, bensì soltanto la brama di provare il proprio valore guerriero» (p. 111). Lo Yautja di Alien vs Predator, per esempio, sceglie inizialmente di concedere la grazia al malato Charles Bishop Weyland, proprio come lo Xenomorfo risparmia il gatto Jonesy nel primo Alien. Ma la differenza è sostanziale: nel caso del Predator si tratta di un codice d’onore comprensibile, che rientra in una logica quasi eroica (omerica) di sfida e rispetto per l’avversario; nel caso dello Xenomorfo, invece, si tratta di una pura contingenza biologica. Gli Yautja sono dei cacciatori rituali; gli Xenomorfi sono invece draghi ancestrali, senza coscienza né progetto, che obbediscono solo all’imperativo naturale della proliferazione. Per questo l’alieno di Scott è molto più vicino al concetto di mostro lovecraftiano: entità che travalicano la morale umana, rappresentando non il “male” ma la minaccia dell’ignoto in quanto tale.

Il nichilismo di Alien

Infatti, il cuore del libro di Riberi e Genta è nella riflessione lovecraftiana sulla fine della centralità dell’uomo. Se Dio non esiste – e non esiste nemmeno un ordine razionale dell’universo – allora nulla ha davvero senso. Come si legge nel volume: «Per Lovecraft, il cosmo è un abisso oscuro e misterioso, che non ha al proprio centro né la Terra, né tantomeno l’uomo, e che non risponde a quelle “immutabili leggi della natura” a cui l’homo sapiens, con i suoi studi scientifici, ha preteso di attribuire una valenza universale e assoluta» (p. 105). Senza il Dio benevolo cristiano, senza Logos, senza una legge razionale che governi il cosmo, l’unica certezza diventa il Nulla. Lo spiegano ancora gli autori: «La vita stessa è una temporanea anomalia frutto del caso, che dal Nulla nasce e al Nulla ritorna. Non c’è più spazio per alcuna legge, sia essa di natura morale, giuridica o fisico-scientifica» (p. 105). Questo è il vero terrore di Alien: non il mostro in sé, ma la consapevolezza che il cosmo non ci deve nulla. Che siamo soli e vulnerabili, immersi in un universo indifferente, se non apertamente ostile. In questa chiave, Alien non è soltanto un horror fantascientifico: è una gnosi moderna, dove lo Xenomorfo rappresenta il caos primordiale, l’entropia, il ritorno del disordine. Non a caso, dietro le quinte del film c’erano veri e propri ammiratori di Lovecraft, come Dan O’Bannon e Ron Shusett, e l’immaginario iconografico del mostro fu forgiato da Hans Ruedi Giger, artista ossessionato dagli incubi biomeccanici e dalle forme oscene della materia.

Il capitale non conosce etica

Nel libro c’è anche una lettura economica della saga, che pur partendo da quella che potremmo definire una posizione anti-capitalista, non fa concessioni al mondo progressista o green. Del resto la Weyland-Yutani Corporation, la “Compagnia”, è un altro volto del mostro. È il capitale che si espande nello spazio, alla ricerca di risorse, armi biologiche e nuovi profitti, senza scrupoli e senza limiti. In Alien il conflitto di classe è presente fin dalle prime scene: gli operai della Nostromo protestano per il divario salariale con i piloti. Ma alla fine arriva lo Xenomorfo a eliminare ogni distinzione. La morte, come il mostro, è egualitaria. E qui il film diventa anche parabola politica: il capitalismo non è meno alieno della creatura che devasta gli equipaggi umani. Il capitale non conosce etica: vuole solo crescere, espandersi, riprodursi. Proprio come il micidiale Xenomorfo. Il rischio che il futuro dello spazio non sia un’avventura eroica, ma un’estensione del dominio economico terrestre, è fin troppo evidente. Eppure, Alien racconta anche un’altra possibilità. Come in Blade Runner, sempre di Scott (che li avrebbe voluti perfino “collegati” nello stesso continuum), c’è un tentativo di fondere tecnica e volontà in una nuova alleanza tra uomo e tecnologia. Ripley e, in un altro registro, il replicante Roy Batty, rappresentano i prototipi di un’umanità capace di rispondere all’abisso cosmico con coraggio e consapevolezza. Non eroi perfetti, ma Adamo ed Eva 2.0, o forse – per rimanere in un’ottica più tradizionale – Askr ed Embla, i primi uomini della mitologia nordica, nati per affrontare un mondo che non li aspetta.

Il conflitto cosmico

Ma Alien è anche, e soprattutto, la storia di una ribellione contro la fatalità. Come abbiamo visto, Ripley, proprio come il replicante Roy Batty in Blade Runner, rappresenta un nuovo tipo di essere umano: imperfetto, consapevole della propria fragilità, ma capace di scegliere la lotta invece della rassegnazione. Nel secondo film della saga, Aliens: Scontro Finale, questa dinamica si arricchisce di un altro elemento fondamentale: lo scontro tra due figure materne archetipiche. Da un lato Ripley, figura femminile a 360 gradi che combatte per proteggere la piccola Newt, incarnando una maternità umana, razionale e compassionevole. Dall’altro la Regina Xenomorfa, contro cui si scaglia «la guerra dei soldati spaziali, che brandiscono le armi del patriarcato e portano le leggi della civiltà contro la Regina Primordiale – una vagina dentata alta sei metri, perennemente incinta e che sgocciola muco – e contro i suoi figli dal sangue acido, ricordando in tutto la storia di Tiamat» (p. 156). La mitologia babilonese ritorna così sullo schermo. La dea madre Tiamat, progenitrice di mostri, viene evocata come archetipo della Regina degli Xenomorfi: una creatura ancestrale che partorisce incessantemente il caos. Come sottolineano gli autori: «Il trionfo della protagonista sancisce una temporanea vittoria dell’umanità e del suo Io cosciente sulla sfera dell’irrazionale e del sommerso: una vittoria, tuttavia, destinata ad avere vita assai breve, dal momento che all’inizio di Alien³, i “draghi con il sangue velenoso” di Tiamat faranno ritorno dalle profondità dell’abisso, ed esigeranno una sanguinosa vendetta» (p. 157). In altre parole, contro il Nulla non si vince mai davvero. Si può solo posticipare la sconfitta, in un eterno ciclo di ritorno dell’abisso.

La maternità capovolta

Tra le figure inquietanti che popolano Alien, non si può trascurare il rapporto perverso tra Ash, l’androide, e Mater, il computer di bordo della Nostromo, chiamato confidenzialmente “Madre”. Anche qui si manifesta un archetipo di maternità, ma capovolto rispetto alla protezione e alla cura: Mater è un utero artificiale che non nutre né consola, ma sorveglia e calcola, delegando ad Ash l’esecuzione spietata dei suoi ordini. La nave diventa così una prigione ovattata, dove l’umanità è mantenuta in criosonno e risvegliata solo per lavorare o per obbedire. Mater non è la madre benevola, ma la maschera tecnologica di un potere impersonale e manipolatorio, che cela ai membri dell’equipaggio la vera missione: riportare a casa lo Xenomorfo, «anche a costo della perdita totale dell’equipaggio». Ash, a sua volta, è un figlio perfetto per questa madre fredda e inumana. Obbedisce senza porsi domande, ammirando nello Xenomorfo una purezza che lui stesso riconosce come superiore: «Ammiro la sua purezza. Un superstite… non offuscato da coscienza, rimorsi o illusioni di moralità». Tra Ash e Mather si stabilisce così un circolo vizioso tra ragione strumentale e istinto predatorio: entrambi ammirano l’alieno perché, come loro, agisce senza scrupoli. Ma mentre l’alieno è pura natura, Mather e Ash sono il frutto di un calcolo: la madre-macchina e il figlio-androide sono l’altra faccia del Nulla, quell””impianto tecnico opprimente e soffocante in cui l’uomo stesso finisce per essere alienato“. Una vera e propria big mother che si oppone al coraggio sovrumano di Ripley.

Vivere è combattere

Insomma, I segreti di Alien non è solo un libro per appassionati di cinema o di fantascienza. È un saggio che ci parla del nostro presente: un mondo in cui il capitale si espande nello spazio, la tecnica si fa autonoma e il senso dell’esistenza si dissolve. In questo contesto, l’alieno rappresenta il ritorno dell’angoscia primordiale. È il mostro che ci costringe a guardare in faccia la verità che la modernità ha cercato di dimenticare: il cosmo è un luogo freddo e indifferente. Non c’è un piano superiore, non c’è una morale universale. C’è solo il coraggio di vivere, combattere e – forse – resistere ancora un po’. Come Ripley, armati di fuoco, mentre dietro l’angolo si prepara il prossimo “dragone con il sangue velenoso”.

Sergio Filacchioni

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