Roma, 18 nov – A Susa, in Piemonte, la presentazione del libro Uccidere un fascista di Giuseppe Culicchia è diventata terreno di scontro politico ancora prima di iniziare. L’evento, previsto per il 24 novembre nella biblioteca comunale, doveva essere un momento di discussione pubblica sul caso Sergio Ramelli, il diciottenne missino ucciso a sprangate nel 1975 da un commando di Avanguardia Operaia. Si è trasformato invece nell’ennesima polemica ideologica che ruota non attorno ai fatti, ma attorno alla lettura autorizzata del passato.
ANPI della Valle di Susa attacca a testa bassa
Il comunicato diffuso dall’ANPI della Valle di Susa è inequivocabile. I partigiani si dicono “fortemente preoccupati” per l’iniziativa, ma ammettono apertamente che «non è il libro in sé a destare perplessità, ma il contesto politico e simbolico in cui la presentazione è stata inserita». Il bersaglio non è dunque Culicchia, ma l’assessore regionale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone, invitato a introdurre l’incontro. Secondo l’ANPI, la presenza di Marrone costituirebbe «una scelta che offre visibilità e legittimazione a un clima culturale che tende al revisionismo storico e a sminuire le responsabilità del Fascismo». E ancora, l’organizzazione parla di iniziative che si collocherebbero «nell’orbita della destra neofascista», accusa che ormai viene utilizzata come formula passe-partout per delegittimare qualunque narrazione non conforme al canone antifascista. Il comunicato prosegue su toni perentori: «Consideriamo inaccettabile ogni tentativo di riscrivere la storia o di ridurre l’antifascismo a un’opinione tra le altre». Una frase che, letta senza filtri, rivela la postura ideologica del gruppo: la storia non come campo di studio, ma come proprietà esclusiva; l’antifascismo come dottrina.
Una retorica completamente scollegata dal contesto
La vicenda non riguarda dunque il contenuto del libro — che ricostruisce con sensibilità narrativa la parabola di Ramelli — ma il tentativo dell’ANPI di blindare il dibattito pubblico. Il messaggio è chiaro: certi episodi del terrorismo rosso possono essere ricordati solo se incasellati dentro un linguaggio controllato, dove ogni dolore è graduato politicamente e ogni ferita del paese deve passare al vaglio dell’antifascismo organizzato. Colpisce la sproporzione tra l’oggetto dell’incontro — una presentazione libraria — e il tono del testo dell’ANPI, che arriva a evocare la “difesa della Costituzione”, i “valori della Resistenza” e addirittura la necessità di “opporsi a ogni tentativo di normalizzare linguaggi e simboli incompatibili con la democrazia”. Una retorica d’emergenza che appare del tutto scollegata dal contesto: quello di un libro che racconta il percorso umano di un ragazzo assassinato. Il punto politico è un altro: per una parte dell’antifascismo istituzionalizzato, Ramelli non può essere una vittima da ricordare perché incrina l’immagine unidirezionale della violenza novecentesca su cui l’ANPI ha costruito la propria identità pubblica. Ed è per questo che, anche a mezzo secolo di distanza, qualsiasi iniziativa che riporti quella vicenda al centro del discorso pubblico genera ostilità.
L’antifascismo opprimente
La discussione che si sarebbe potuta aprire a Susa — sul clima di odio politico, sulle responsabilità condivise, sulla violenza come pratica normalizzata — viene così soffocata in partenza. Non per ciò che Culicchia ha scritto, ma per ciò che Culicchia non ha scritto: un capitolo edificante, perfettamente allineato al racconto univoco che una parte del Paese pretende ancora di imporre. A Susa sta accadendo qualcosa di semplice e rivelatore: la storia italiana continua a dividere non per ciò che contiene, ma per ciò che alcuni vogliono che contenga. E ogni volta che la memoria di Sergio Ramelli torna a galla, c’è qualcuno che teme che la realtà sfugga di mano.
Vincenzo Monti