Roma, 7 mar – La violenza politica in Italia non è solo un capitolo di storia, ma una ferita ancora aperta. Nel suo nuovo libro Uccidere un Fascista, Giuseppe Culicchia racconta la tragica vicenda di Sergio Ramelli, il giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso nel 1975 a colpi di chiave inglese. Un omicidio che, ancora oggi, fa discutere e divide. In questa intervista, lo scrittore riflette sulla memoria degli anni di piombo, sulle contrapposizioni ideologiche che non sembrano sbiadire con il tempo e su un odio politico che, mezzo secolo dopo, continua a riemergere con inquietante attualità.
L’intervista a Giuseppe Culicchia
Vorrei partire con una prima domanda legata a un fatto di cronaca. Sapienza 2025: “uccidere un fascista non è reato” è il coro scandito l’altro ieri da alcuni collettivi di sinistra, rivolti ai loro coetanei di destra. Una normalità, una macabra normalità universitaria. Cosa sta succedendo secondo te?
“Semplicemente succede che, come ho cercato di raccontare in questo libro, l’Italia è un Paese che ha vissuto tre diverse fasi di una stessa guerra civile, con modalità, forme e numeri diversi. La prima è quella del biennio rosso, tra il 1919 e il 1921, a cui è seguito il fascismo. La seconda è la guerra civile del 1943-1945. La terza è quella degli anni di piombo, in cui è stato ucciso anche Sergio Ramelli”.
C’è un collegamento con quello che hai scritto?
“Il nostro è un Paese da sempre spaccato in due. Alberto Arbasino citava addirittura Orazi e Curiazi, guelfi e ghibellini: un’Italia attraversata da una straordinaria capacità di contrapposizione, che ha seminato odio. Un odio profondo, radicato, che sembra inestirpabile. Impressiona ritrovarci nel 2025 ad ascoltare gli stessi slogan di cinquant’anni fa. Se ne esce? Non sono molto ottimista”.
Nel senso che dobbiamo preoccuparci di questo clima?
“Il problema è che l’avversario politico non è più considerato un avversario, ma un nemico. E il nemico viene disumanizzato. Il caso di Sergio Ramelli è emblematico: nessuno degli otto partecipanti all’agguato lo conosceva. Non lo avevano mai incontrato. Per loro era solo un bersaglio da colpire per le sue idee. Un odio ciclico, sedimentato”.
Nel 2021 avevi scritto un libro su Walter Alasia, ex brigatista e tuo cugino. Ora scrivi di Ramelli. Si possono azzardare delle somiglianze tra due personaggi così diversi?
“Di sicuro. Erano due coetanei con molte cose in comune: entrambi nati a Milano, a pochi mesi di distanza, in famiglie normali. La famiglia di Walter Alasia era operaia, quella di Sergio Ramelli piccolo-borghese. Il padre di Ramelli aveva un bar in Corso Buenos Aires. Entrambi frequentavano un istituto tecnico, entrambi tifosi dell’Inter, entrambi appassionati di musica. A dividerli, ovviamente, c’è la politica”.
C’è un filo rosso che ti ha portato su entrambe le sponde degli anni di piombo?
“Ramelli militava nel Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del MSI, un partito parlamentare. Alasia invece, dopo Lotta Continua, passò alle Brigate Rosse e scelse di impugnare un’arma. Fu ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri nel 1976, dopo aver ucciso a sua volta. Ramelli invece fu ucciso per un tema. Un tema in cui stigmatizzava la mancata condanna dell’omicidio di due missini da parte delle BR. Il testo finì nelle mani del collettivo scolastico, venne affisso in bacheca con la scritta ‘questo è il tema di un fascista’ e da lì iniziò la persecuzione che portò alla sua morte. Mi sono chiesto spesso se Ramelli e Alasia si fossero mai incrociati. Magari davanti a un negozio di dischi o allo stadio. Paradossalmente avrebbero potuto incontrarsi nel tentato assalto alla sede del MSI in via Mancini, ma Ramelli era già in ospedale, in coma”.
Perché hai deciso di scrivere un libro su Sergio Ramelli?
“C’erano molte cose in comune tra Ramelli e Alasia, e c’era anche un collegamento simbolico tra le loro storie. Ma Sergio Ramelli è stato ucciso dopo aver scritto un tema in cui parlava di un fatto legato alle Brigate Rosse. Walter Alasia, invece, ha imbracciato un’arma ed è stato ucciso dopo aver ucciso. Sono due tipi di morte completamente diversi: quella di Sergio è la storia di un ragazzo ammazzato solo per le sue idee. Non è stato uno scontro simmetrico. In quegli anni ci sono state tante vittime, da entrambe le parti. Anche ragazzi uccisi perché indossavano una divisa, in alcuni casi perché credevano di difendere la Costituzione, in altri perché era semplicemente il loro lavoro. Per tutte queste vittime servirebbe un racconto onesto, che restituisca la loro storia. Penso ai ragazzi della scorta di Moro, ai carabinieri uccisi a Peteano… tutte vite spezzate che meritano di essere ricordate”.
Storie come quelle di Ramelli spesso le vediamo sui giornali perchè sono state ritualizzate nelle commemorazioni militanti, ma raramente chi scrive articoli indignati sui vari “Presente” che ci sono in tutta Italia ha la sensibilità di scendere nel dramma personale delle famiglie... hai incontrato difficoltà particolari nel raccontare queste storie?
“Per me raccontare Walter Alasia è stato difficilissimo. Perché Walter non era solo un cugino, era un fratello maggiore. Lo amavo molto. Era un ragazzo generoso, affettuoso. Quando avevo 11 anni, tornando da scuola, trovai la mia famiglia in lacrime davanti alla TV. Vidi Walter dipinto come un mostro. Per me fu la fine dell’infanzia. Ci ho messo più di 40 anni a trovare le parole giuste per raccontarlo. E poi c’era Ramelli. Un ragazzo ucciso per aver scritto un tema sulle BR. Due destini apparentemente agli antipodi, ma legati in modo inquietante. Spesso sentiamo dire che ‘i morti non sono tutti uguali’. Bene, prendiamo pure per buona questa tesi. Ma una cosa è certa: il dolore di chi ha amato quei morti è sempre uguale. Il dolore di una madre, di un padre, di una famiglia ha la stessa dignità, indipendentemente da chi fosse la vittima e da quale fosse la sua appartenenza politica. Eppure, sembra quasi che di alcuni morti ci si debba vergognare, come se ricordarli fosse scomodo. Ma non è così, non deve essere così. La madre di Walter Alasia è morta di crepacuore otto anni dopo la morte del figlio. Il padre di Sergio Ramelli è morto quattro anni dopo, per lo stesso motivo. In entrambi i casi, uno dei genitori non ha retto al dolore, stroncato dalla perdita di un figlio così giovane. È qualcosa di spaventoso. E andava raccontato.
Spesso oggi, parlando di questi anni, si tende a spoliticizzare le vittime, dicendo che sono state vittime degli “inganni ideologici”. Ma l’impegno politico giovanile non è qualcosa che andrebbe preservato? È ancora valida l’equazione “gioventù e rivoluzione”?
“C’è una poesia di Montale che dice, più o meno ‘Tutto quello che ho da dire, tutto quello che posso dirti, è ciò che non siamo, ciò che non vogliamo‘”‘. La cito a memoria (non sono mai stato bravo con le poesie) ma il senso è chiaro. I giovani da sempre vogliono cambiare il mondo degli adulti. È il motore della loro età. Non sempre lo fanno con la politica, e non sempre in modo violento. Dopo gli anni ’80, con il riflusso, l’impegno politico è scemato. Oggi il mondo è cambiato ancora. Ora stiamo vivendo un momento di transizione storica. Abbiamo visto cambiare il mondo sotto i nostri occhi: con la seconda presidenza di Trump, con i nuovi assetti geopolitici. Vedremo se i ventenni di oggi sentiranno il bisogno di impegnarsi di nuovo in politica”.
Vorrei chiudere con una domanda sul tuo lavoro con Guido Giraudo. Lui si impegna da anni per la memoria di Ramelli. Come sei arrivato a collaborare con lui?
“Il lavoro di Guido è prezioso. Preserva e trasmette la memoria. Il suo archivio è stato fondamentale per il mio libro: senza di lui, recuperare certi documenti sarebbe stato un lavoro di anni. Quando ci siamo conosciuti, mi ha raccontato di aver incrociato Ramelli prima della sua morte. Era sinceramente commosso. È una storia che fa ancora paura, come dice il titolo del suo libro”.
Già, una storia che fa ancora paura… è una dichiarazione d’intenti?
“Sì, perché è così. È una storia che ancora oggi mette a disagio, soprattutto chi stava dall’altra parte. Perché un conto è uno scontro tra pari, un altro è un agguato a un ragazzo che torna a casa dal bar. Credo che l’aspetto più terribile del caso Ramelli, oltre alla natura asimmetrica dell’aggressione – un gruppo extraparlamentare che esegue un’esecuzione contro un ragazzo che militava in un partito parlamentare, certo non in un’organizzazione terroristica – sia stata la persecuzione che ha subito la famiglia dopo. A colpirmi è sempre stata anche la connivenza dell’ambiente scolastico. Il tema scritto da Ramelli non suscitò scalpore fino a quando non fu trafugato e affisso in bacheca. Da lì partì il linciaggio. Il padre andò a prenderlo a scuola e furono accerchiati, senza che nessun professore intervenisse. Poi ci sono state le minacce dopo l’agguato, le telefonate di scherno anche dopo la sua morte, le pressioni che costrinsero il fratello Luigi a lasciare Milano. È stata una persecuzione costante, che è durata anni”.
A volte colpisce più il contesto che l’omicidio in sé: il silenzio, le complicità, la narrazione distorta… Spesso la violenza più grande non è solo l’atto fisico, ma quello che viene prima e dopo...
“Sì, perché va oltre la violenza fisica. È la demonizzazione, l’oblio imposto, la giustificazione dell’ingiustificabile. Ancora oggi qualcuno cerca di ridurre Ramelli a un ‘picchiatore’. Ma era solo un ragazzo che attaccava manifesti”.
Quest’anno, per il cinquantennale, la storia di Ramelli sta finalmente uscendo dall’angolo. Il tuo libro con Mondadori, quello di Casamassima con Solferino… Forse il muro di silenzio sta crollando?
“Forse sì. Per anni si è cercato di seppellire questa storia. Ma il tempo aiuta a guardare le cose con maggiore lucidità. Il vero orrore della vicenda di Ramelli non è solo la sua morte, ma la persecuzione prima, durante e dopo. Le minacce alla famiglia, il silenzio della scuola, l’ostilità della città. E il fatto che si sia dovuto aspettare dieci anni per avere giustizia”.
Sergio Filacchioni