Roma, 9 ott – Negli Stati Uniti, la guerra interna di Donald Trump contro i movimenti progressisti è entrata in una nuova fase. Da settimane, la Casa Bianca lavora a un piano per indagare e colpire la rete finanziaria dei gruppi liberal accusati di fomentare violenze politiche. Dietro le quinte, l’architetto dell’operazione è sempre lui: Stephen Miller, l’ideologo più radicale dell’entourage trumpiano, fautore della linea dura sull’immigrazione e della “riconquista” dello Stato federale.
Gli Antifa e il “terrorismo domestico”
Secondo un’inchiesta pubblicata da Reuters, il piano coinvolge FBI, Dipartimento di Giustizia, Sicurezza Interna, Tesoro e IRS: l’intero apparato antiterrorismo americano verrà impiegato contro non profit, fondazioni, università e ONG considerate parte di una rete di “terrorismo domestico”. In altre parole, l’amministrazione intende trattare il radicalismo progressista come un nemico interno da neutralizzare con strumenti di guerra giudiziaria e finanziaria. La svolta è arrivata dopo l’assassinio, il 10 settembre, dell’attivista conservatore Charlie Kirk, figura simbolo del trumpismo giovanile. Due settimane dopo, Trump ha firmato un memorandum presidenziale che ordina al National Joint Terrorism Task Force di concentrare gli sforzi su individui e movimenti “animati da anti-americanismo, anti-capitalismo e anti-cristianesimo”. Una definizione ideologica, non giuridica, che amplia il concetto di minaccia interna fino a includere larga parte dell’attivismo di sinistra e dell’ambientalismo radicale.
Soros nel mirino della Casa Bianca
Non a caso, i primi nomi emersi nel mirino della Casa Bianca sono quelli di George Soros e Reid Hoffman, miliardari democratici noti per finanziare campagne elettorali, associazioni per i diritti civili e reti digitali progressiste. Il documento presidenziale, spiega Reuters, non cita espressamente gruppi “di sinistra”, ma la selezione dei casi e delle indagini parla da sola. La Casa Bianca sostiene che “le organizzazioni progressiste hanno organizzato attacchi contro agenti federali, doxing mirato e distribuzione di materiale per le rivolte”. Dietro questa narrativa si muove un disegno più profondo: trasformare l’antiterrorismo in strumento di repressione interna, ridefinendo la sicurezza nazionale anche come lotta contro il dissenso politico. La lista delle organizzazioni citate include Open Society Foundations, ActBlue, Indivisible, la Coalition for Humane Immigrant Rights (CHIRLA) e due ONG ebraiche anti-sioniste, IfNotNow e Jewish Voice for Peace. Il linguaggio usato dalla Casa Bianca parla di “finanziamenti per proteste violente” e “attività di coordinamento illegale”, ma finora nessuna prova concreta è stata resa pubblica.
Colpire il cuore finanziario del progressismo
Le fondazioni rispondono con fermezza: «Non finanziamo proteste né promuoviamo violenza», ha dichiarato la portavoce di Soros. Trump, dal canto suo, rilancia. Durante una conferenza alla Casa Bianca ha dichiarato: «Se stanno finanziando questi agitatori, avranno problemi. Sono anarchici e nemici dell’America». Il vero obiettivo, spiega una fonte interna citata da Reuters, è “destabilizzare la rete Soros”, cuore finanziario del progressismo globale. Lo scontro, quindi, non è solo americano: tocca le stesse reti che in Europa sostengono l’agenda open borders, il wokismo e la cultura dell’indistinzione. Il piano operativo prevede quindi di colpire i gruppi progressisti sul piano fiscale, legale e finanziario, attraverso la revoca dello status di esenzione fiscale (IRS) per le ONG sospette, l’avvio di indagini penali da parte del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI, l’impiego di sorveglianza elettronica e intercettazioni, e l’uso delle leggi RICO, nate per la lotta alla mafia, insieme alle leggi antiterrorismo per tracciare i flussi di denaro e i donatori. Si tratta di una militarizzazione della sfera civile: la politica viene trattata come minaccia alla sicurezza nazionale.
Una battaglia dopo l’altra
Molti analisti hanno paragonato questa crociata all’era Nixon, quando la Casa Bianca schedava giornalisti, artisti e militanti pacifisti. Ma la differenza, osserva lo storico Timothy Naftali, è che Trump oggi dispone di un Congresso e di un gabinetto pienamente allineati, e può contare su un consenso popolare costruito sull’idea di “riconquista dell’America” dopo la crisi migratoria e culturale. La sensazione, leggendo tra le righe di questo nuovo fronte aperto dalla Casa Bianca, è che gli Stati Uniti stiano entrando in una fase di guerra civile a bassa intensità. Una guerra che non si combatte (ancora) con i fucili, ma con gli algoritmi, le inchieste fiscali, i tribunali e i droni mediatici. La frattura tra l’America profonda e quella progressista è ormai irreversibile, e trova il suo specchio nella cultura cinematografica hollywoodiana: il film-manifesto One Battle After Another — una spudorata romanticizzazione della lotta armata e della sinistra radicale americana — ha reso visibile ciò che la politica cerca ancora di nascondere. Gli Stati Uniti, laboratorio del mondo occidentale, stanno sperimentando sul proprio suolo la trasformazione del dissenso in guerra aperta, la fusione fra militanza radicale e wokeness che annuncia una nuova epoca di conflitti interni mascherati da battaglie morali.
Una guerra civile a bassa intensità (per ora)
In questo scenario, né la Casa Bianca né la galassia Antifa rappresentano davvero una via d’uscita. Trump trasforma l’antiterrorismo in strumento politico, ma i suoi avversari hanno da tempo trasformato il progressismo in una religione intollerante. Entrambi agiscono mossi da una stessa logica: quella della purificazione morale del nemico. La guerra a bassa intensità che oggi attraversa gli Stati Uniti non è dunque solo una lotta per il potere, ma la crisi di (una) civiltà, in cui la politica si trasforma in lotta per il monopolio della “Verità”. L’Europa, come sempre, seguirà a distanza ravvicinata. Le sue élite, i suoi movimenti, le sue piazze finiranno per riflettere questa stessa polarizzazione: da un lato gli Stati che rispolverano l’ordine e la sovranità in chiave repressiva, dall’altro un attivismo morale che si nutre di indignazione permanente e genera violenze esplosive. Tra queste due forze non c’è più dialogo possibile, solo una lunga resa dei conti. E come accade spesso nella storia americana, ciò che oggi succede a Washington, domani — in forme diverse ma convergenti — arriverà anche da noi.
Sergio Filacchioni