Roma, 15 sett – Un verso di Bella Ciao inciso sulle cartucce del presunto assassino di Charlie Kirk. Tanto è bastato perché i giornali cambiassero immediatamente registro: l’inno partigiano è stato “rovinato” dalle serie Netflix. Il Corriere ci ha scritto un lungo pezzo, con la solita retorica del “messaggio tradito” e “incompreso”. Ma la verità è un’altra: Bella Ciao non è stata travisata oggi. È nata già come travisamento.
Bella ciao, l’operazione più mainstream dell’antifascismo
Dai primi anni Duemila in poi, quando la sinistra era mainstream e credeva di dover solo raccogliere i frutti della “fine della storia”, il canto fu riproposto sotto varie operazione come brand della resistenza globale: Occupy Wall Street, piazza Taksim, funerali di Charlie Hebdo, Tsipras, Hollande. La cultura pop in espansione con i primi anni di Netflix fece il resto: La Casa di Carta trasformò Bella Ciao in jingle planetario antagonista e antisistema. Un gadget che serviva ad affermare che il partigiano italiano era il padre (o la madre) di tutti i partigiani della storia e del mondo. Ora che però quell’operazione si è ritorta contro i suoi stessi promotori (Repubblica solo pochi anni fa elogiava la globalizzazione di Bella ciao), si parla di “uso improprio”, di travisamento e incomprensione. Ma improprio rispetto a cosa? In fondo, fu lo stesso Giorgio Bocca che ammise di non averla mai sentita durante la guerra. La stessa Anpi, dai suoi copiosissimi archivi, ha già confermato che la melodia esisteva in realtà dagli anni Venti come musica yiddish. La versione resistenziale fu costruita dopo, gonfiata a partire dagli anni Sessanta, venduta e ricostruita artificialmente come memoria collettiva. Lo storico Cesare Bermani parlò senza mezzi termini di “invenzione di una tradizione”. Non c’è quindi nessuna purezza originaria. C’è, da sempre, una truffa narrata come epopea. E averla resa “brand” globale ha solo espanso l’inganno oltre i confini nazionali.
Un cortocircuito che rivela la grande truffa
Il cortocircuito si fa lampante quando entra in gioco il rapporto con i videogiochi del presunto killer. Per decenni la sinistra ha accusato il gaming di generare violenza, di coltivare sottoculture tossiche, di alimentare il suprematismo. Ora, però, si accorge che sono proprio i videogame ad aver diffuso nel mondo la sua estetica e i suoi miti: ribellioni glamour, inni resistenziali, slogan prefabbricati come Bella Ciao. È la stessa dinamica di cinquant’anni fa, quando il PCI demonizzava i fumetti americani e i manga giapponesi, salvo poi scoprire che quei linguaggi parlavano ai giovani molto più della prosa paludata dei comizi. E così, quando il primo assassino cresciuto a pane e videogiochi si rivela antifa, la narrazione implode. Questa è la vera parabola di Bella Ciao. Non l’innocenza di un canto popolare tradito, ma la continuità di una menzogna. Non il mito puro deformato dalla contemporaneità, ma un mito già corrotto all’origine, usato come merce politica e oggi ridotto a slogan senza senso. Dalle mondine mai esistite alle barricate da social, dai partigiani immaginari a Netflix, fino a finire inciso su proiettili di un figlio di questo brodo culturale, politico e mediatico che un po’ biasima Robinson e un po’ lo invidia.
Bella ciao, il canto perfetto di una cosa che non fu mai
Ma Bella Ciao non è il canto della Resistenza, perchè è la Resistenza stessa a essere un mito costruito a tavolino. Non racconta la liberazione, perché quella non ci fu: ci fu un’occupazione portata avanti dai carri armati americani e sovietici, camuffata da epopea popolare. Non racconta una lotta, ma la sua favola. Non è la voce del popolo, ma il jingle di un potere che aveva bisogno di autolegittimarsi. Ecco perché la parabola di oggi è maledettamente coerente. Bella Ciao è l’emblema di un Paese che ha scambiato per memoria nazionale la propaganda di una parte politica minoritaria, e che oggi deve giustificarsi per la sua stessa fregatura.
Sergio Filacchioni