Roma, 16 sett – Tutto nasce da un tweet. Francesca Totolo, storica collaboratrice del Primato Nazionale, ha commentato un video di Antonella Bundu, candidata della lista “Toscana Rossa”, in cui l’ex consigliera comunale fiorentina parlava di “decostruire il razzismo”. Totolo non ha usato mezzi termini: «L’antirazzismo è la più potente arma della sinistra usata per sottometterci, per fiaccarci e per installarci nella testa falsi sensi di colpa. Il progetto non è quello di decostruire il razzismo ma di distruggere la nostra civiltà millenaria». Un giudizio netto, certo, assolutamente condivisibile. Ma soprattutto un giudizio politico. Eppure, in meno di ventiquattr’ore, quel tweet si è trasformato in una schermaglia elettorale, mascherata da moralismo.
La Bundu vuole “smantellare la bianchezza”
Antonella Bundu, nata a Firenze da padre sierraleonese e madre italiana, ha risposto a tono. Prima con un post su Facebook in cui posava sorridente con una banana in mano, rivendicando l’ironia come arma contro il “razzismo”, poi accusando Totolo di voler negare la sua italianità definendola “sierraleonese con cittadinanza italiana”. Infine, la solita lagna della sinistra: «CasaPound va sciolta. Ora». Il resto lo ha fatto la Repubblica, che ha confezionato il solito articolo a senso unico, in cui Totolo diventa “attivista dell’estrema destra”, il Primato Nazionale un “giornale neofascista” e Bundu la vittima esemplare di un attacco razzista. La solita sceneggiatura: spostare il discorso dal contenuto politico alle accuse morali, imbastendo la narrazione della povera candidata aggredita per il colore della pelle. Eppure basta leggere le parole della stessa Bundu per capire che Totolo non si è inventata nulla. Pochi giorni fa, al Meeting Internazionale Antirazzista di Cecina, Bundu ha parlato senza giri di parole di “smantellare la bianchezza”. Ha definito la bianchezza un sistema di potere, un privilegio da attaccare, smontare, disarticolare. Non si tratta quindi di difendere diritti, ma di proporre un vero e proprio progetto di decostruzione identitaria, che punta dritto al cuore della civiltà europea. Ecco il punto: c’è chi può scrivere che vada smantellata la “bianchezza” (non faremo la solita domanda retorica di cosa sarebbe successo se qualcuno di centro-destra avesse scritto “smantellare la negrezza”?). Ma per il solo fatto di averlo evidenziato, Francesca Totolo è stata accusata di essere una seminatrice di odio.
Il problema non è la pelle, ma l’antifascismo
Ecco perché il nodo non è la “negritudine” o la “bianchezza”. Non è questione di colore della pelle. Il nodo è politico: l’antifascismo. È l’antifascismo che arma il linguaggio della Bundu, che legittima slogan come “smantellare la bianchezza”, che permette di chiedere lo scioglimento di forze politiche legittime in nome di una presunta emergenza democratica. L’antifascismo è una mafia, una macchina ideologica che serve a criminalizzare l’avversario, a trasformare la legittima difesa dell’identità in “odio”, a cancellare ogni opposizione al pensiero unico progressista. Un’arma utile perché funziona indipendentemente dal colore della pelle: colpisce il bianco che osa dissentire e premia il nero che accetta di essere arruolato come simbolo. Totolo ha toccato il punto: l’antirazzismo è il paravento, l’antifascismo è la clava. E dietro questa doppia retorica non c’è la tutela della dignità umana, ma un progetto di demolizione: delegittimare la nostra storia, ridurre l’identità europea a “privilegio bianco”, cancellare le radici per sostituirle con l’ideologia del mercato globale e della colpa perpetua. E intanto questo succede ogni giorno, lontano dai riflettori e dalle paginate scandalizzate di Repubblica: bambini italiani aggrediti da baby gang di origine straniera (è successo l’altroieri a Fidene), quartieri trasformati in zone franche di violenza, famiglie costrette a vivere nell’insicurezza. Nessun editoriale, nessuna grande campagna contro l’odio, nessun talk show a ripetere lo slogan del momento. Qui non si parla di “smantellare la bianchezza”, ma di un Paese reale che si sgretola sotto i colpi – spesso letterali – dell’immigrazione senza freni e della retorica buonista che la accompagna.
La strategia della sinistra nel dopo-Kirk
Nel dopo-Kirk e a ridosso del voto regionale, Repubblica e Bundu seguono uno schema abbastanza trasparente: setacciare il web in cerca del titolo o della frase più “scomoda” proveniente da destra per costruire la tesi della “simmetria dell’odio” – meglio ancora, che l’odio sarebbe prerogativa esclusiva della destra. Ma qui c’è un equivoco utile alla propaganda. Se a destra l’insulto è spesso uno sfogo, dall’altra parte, invece, l’operazione è sistemica: si elabora una dottrina fredda e burocratica che patologizza l’avversario, lo descrive come “contagio” sociale, invoca una “parte giusta della Storia” e utilizza la clava dei “diritti” per chiudere il discorso, legittimando la repressione di idee, movimenti e persone fino a alla giustificazione del gesto politico estremo – ma non come gaffe, ma come tesi espressa da voci “culturalmente autorevoli”. Questo è lo schema: spettacolarizzazione di un tweet, spot elettorale con la banana e teorizzazione dell’odio politico legittimo. Chiarito ciò, il vittimismo non ci si addice: chi sceglie la politica sceglie anche il conflitto.
Sergio Filacchioni