Roma, 8 ott – Un anno fa, nel primo anniversario del 7 ottobre, scrivevamo che «qualcosa è cambiato». Oggi, al secondo anniversario, possiamo dire che quelle parole non erano un’impressione passeggera: molte di quelle analisi si sono rivelate esatte, altre sono state smentite, altre ancora hanno assunto contorni più duri di quanto immaginassimo.
A due anni dal 7 ottobre
L’anno scorso parlavamo di una Gaza insanguinata, ridotta in macerie e sospesa sull’orlo della carestia. Nel frattempo la Striscia è sprofondata in quella carestia: secondo l’IPC un quarto della popolazione – soprattutto nel nord – vive in condizioni catastrofiche di fame. Più di 1,9 milioni di persone, oltre il 90% della popolazione, sono state costrette a sfollare almeno una volta; circa la metà degli edifici è distrutta o inagibile e oltre i tre quarti riportano danni di varia entità. Se nel 2024 il numero delle vittime palestinesi superava le quarantunmila, oggi siamo oltre quota 67 mila. Lo scenario che un anno fa denunciavamo come disastroso si è aggravato al punto da rendere Gaza una terra spettrale, svuotata e affamata. Anche la cronologia della violenza ha seguito un percorso che avevamo intuito. Nel primo anno la guerra era stata furiosa, con picchi di migliaia di morti al giorno; poi un apparente assestamento nel 2024. Credevamo però che la tregua fosse fragile, e così è stato: la ripresa delle ostilità nel marzo 2025 ha riportato la guerra a livelli che non si vedevano dall’inverno del 2023-24, con luglio e settembre come mesi più sanguinosi degli ultimi tempi, oltre quattromila morti ciascuno.
Il logoramento israeliano
Sul versante israeliano, nel 2024 sottolineavamo il rischio di un logoramento politico ed economico più che militare. Oggi i dati lo confermano: le IDF contano 913 caduti, di cui quasi la metà nelle prime settimane del conflitto e altri 486 nel corso delle operazioni di terra a Gaza. Dal punto di vista strettamente bellico Israele ha contenuto le perdite, ma non ha raggiunto i suoi obiettivi: Hamas non è stato annientato, il dossier ostaggi resta aperto, il fronte libanese non è stato chiuso. A pesare davvero è stata l’economia. Se a ottobre 2023 il Paese era appena tornato ai livelli di crescita pre-Covid, l’attacco del 7 ottobre e la successiva mobilitazione hanno causato un crollo del PIL del 6% nell’ultimo trimestre 2023. Ci si aspettava un rimbalzo come nel post-pandemia, ma non è arrivato: Israele ha attraversato un anno di stagnazione prolungata, che frena investimenti e salari e accentua le fratture sociali. I sondaggi dell’INSS fotografano un Paese che mantiene grande fiducia nell’esercito – fra il 70 e l’82% – ma diffida del governo, fermo fra il 20 e il 30%, con Netanyahu che non supera il 35%. Era la dinamica che già intravedevamo dodici mesi fa: una società che si stringe intorno all’esercito ma che si allontana dalla sua classe politica.
La Palestina riconosciuta ma inesistente
Sul piano diplomatico, un anno fa notavamo l’incrinarsi dell’appoggio occidentale a Israele e l’aprirsi di un caso giudiziario all’Aja per genocidio. Oggi questo quadro si è consolidato: gli Stati che riconoscono la Palestina sono passati da 139 a 157, includendo Francia, Spagna e Regno Unito; Israele resta sempre più isolato in Europa, mentre negli Stati Uniti il calo di consenso è stato più contenuto, creando un divario transatlantico che nel 2024 si poteva solo intravedere. Il procedimento per genocidio rimane pendente e continua a pesare sulla reputazione di Tel Aviv, pur senza ancora un verdetto definitivo. C’è invece un elemento nuovo: l’annuncio del “piano di pace in 20 punti” firmato Trump-Netanyahu e sostenuto da diversi Paesi arabi. Dodici mesi fa non avremmo previsto una mossa simile; ma il contenuto del piano – con un ritiro graduale che lascerebbe comunque oltre il 40% di Gaza sotto controllo israeliano dopo la seconda fase e circa un quinto anche al termine dell’ultima – fa pensare più a una ristrutturazione dell’occupazione che a un reale percorso di pacificazione. Un anno fa scrivevamo che Israele si mostrava disposto a colpire ovunque, senza rispettare “corridoi umanitari” o “linee rosse”. Quella constatazione non è stata smentita: l’offensiva su Gaza City e i raid di luglio-settembre ne sono la prova.
Il piano di pace senza pace
Alla luce di due anni di guerra possiamo tirare le somme: le intuizioni del 2024 sulla brutalità israeliana, sul disastro umanitario di Gaza, sull’erosione dell’immagine di Israele in Europa e sul logoramento politico interno si sono rivelate corrette, anzi sottostimate. È cambiata la cornice: non si è prodotto il cedimento politico di Tel Aviv che molti si aspettavano, mentre la sofferenza palestinese ha raggiunto livelli che dodici mesi fa sembravano già estremi. Gaza oggi è allo stremo; Israele è più diviso, economicamente più fragile, più isolato. Nessuno ha vinto. La guerra che un anno fa definivamo «una ferita aperta» è diventata una piaga che continua a sanguinare, mentre il “piano di pace” assomiglia sempre di più a un mandato fiduciario, affidato a uomini con un pedigree vergognoso.
Sergio Filacchioni