Roma, 2 sett – Roma, 2 sett – L’accusa lanciata dal primo ministro francese François Bayrou contro l’Italia, colpevole di praticare “dumping fiscale”, è durata pochi secondi e non aveva nemmeno come bersaglio reale il nostro Paese. Il leader centrista, incalzato dalle domande della giornalista Myriam Encaoua su FranceInfo, stava in realtà cercando di demolire le controproposte del Parti socialiste. Nel tentativo di smontare la cosiddetta “tassa Zucman” – un’imposta del 2% sui patrimoni sopra i 100 milioni di euro, presentata dai socialisti come ricetta miracolosa per il bilancio pubblico francese – Bayrou ha evocato l’esempio italiano come paradigma di “nomadismo fiscale” e arbitraggio dei ricchi.
La gaffe di Bayrou sul “dumping” fiscale
A chiunque non abbia gli occhi coperti dalla solita retorica anti-francese fatta di bidet e baguette, appare evidente che quella di Bayrou è una terribile gaffe, figlia di una crisi politica che già molti danno come irreversibile: l’8 settembre il Primo Ministro si presenterà di fronte all’Assemblea Nazionale alla ricerca di una fiducia sempre più improbabile. Che la Francia, in questo clima teso e dopo l’abolizione dell’imposta sulle fortune decisa da Macron stesso nel 2017 (gli valse l’appellativo “presidente dei ricchi”), venga oggi a puntare apertamente il dito contro Roma, sarebbe a dir poco esilarante. Del resto tutti i grandi Paesi europei hanno introdotto, negli ultimi anni, strumenti per attirare capitale umano e finanziario. Parigi lo ha fatto abbassando le imposte sui salari e riducendo il carico fiscale per le imprese, nel tentativo di reggere il confronto con la Germania. Londra ha mantenuto regimi speciali per i residenti non domiciliati. L’Italia, dal canto suo, ha varato nel 2017 una flat tax sui redditi esteri dei super-ricchi che scelgono di trasferirsi nel nostro Paese. Nulla di scandaloso, nulla di “dumping”: pura e semplice concorrenza fiscale. Ma così poco è bastato per attivare dei riflessi pavloviani che, quando giungono da oltralpe, balzano immediatamente al livello della disfida di Barletta.
Perchè proteggere regimi fiscali oppressivi?
L’uscita infelice di Bayrou suona ancora più ridicola se si guarda al livello complessivo della pressione fiscale nei due Paesi. Italia e Francia sono accomunate da una tassazione opprimente, tra le più alte d’Europa. Parlare di paradisi fiscali è grottesco: la realtà è che stiamo correndo una gara tra due inferni fiscali. Se alcuni capitali scelgono di insediarsi a Roma piuttosto che a Parigi, non è perché l’Italia sia diventata un’oasi, ma solo perché – all’interno di un quadro complessivo soffocante – qualche correttivo è stato introdotto. Ed è qui che emerge, di riflesso, una debolezza tutta italiana: Giorgia Meloni ha replicato rivendicando di non aver adottato politiche di favore per attrarre aziende e, anzi, di aver raddoppiato l’imposta forfettaria sui nuovi residenti. Ha poi approfittato dell’occasione per una tirata contro i presunti “paradisi fiscali europei”. Una linea difensiva che lascia quantomeno perplessi: perché accanirsi contro chi tassa di meno, quando il vero problema è che il nostro fisco resta tra i più oppressivi d’Europa? E soprattutto, perché concentrare il fuoco su piccole agevolazioni quando le grandi multinazionali continuano a muoversi indisturbate tra le maglie dei sistemi fiscali nazionali?
Le multinazionali che fuggono e fottono
Infatti, mentre Roma e Parigi si accusano a vicenda di favorire i ricchi, i colossi globali restano i veri beneficiari di un sistema che premia la delocalizzazione e la contabilità “creativa“. In Italia l’Ires è al 24%, ma solo per chi genera profitti: così nel 2022 Fca Italy ha fatturato 24 miliardi chiudendo in perdita e non versando un euro, mentre gli utili li ha registrati la capofila Stellantis con sede nei Paesi Bassi, dove grazie agli sgravi le imposte possono scendere fino al 2,5%. Un caso simile riguarda Google, che nel 2023 ha fatturato 307 miliardi di dollari con 85,7 miliardi di utili, pagando 11,9 miliardi di tasse. Davvero un bel derby quello con la Francia: Stati soffocati da un fisco opprimente per imprese e cittadini si fanno la guerra sulle aliquote interne, ma permettono ai giganti globali di muoversi indisturbati tra giurisdizioni compiacenti. La vera malattia dell’Unione Europea quindi non è il “dumping fiscale”, ma l’ossessione per l’attrarre capitali esteri invece di costruire un mercato interno solido, coeso e competitivo. L’Europa compete a colpi di sgravi e regimi agevolati per i super-ricchi, mentre rinuncia a rafforzare la propria base produttiva e la domanda interna. È il contrario di ciò che hanno fatto gli Stati Uniti, che hanno edificato la loro potenza economica sulla centralità del mercato domestico e sulla capacità di trattenere capitali e talenti in patria. La vera lezione della polemica franco-italiana è tutta qui: è necessario costruire un mercato interno forte, protetto e incentivato, capace di sostenere le imprese europee nella competizione globale.
L’Europa deve smettere di inseguire
In questa prospettiva, l’Unione dovrebbe trasformarsi da ostacolo a strumento: purché si liberi dall’ossessione dell’armonizzazione fiscale (già rilanciata dall’immancabile Tajani), e dall’imitazione del modello neoliberale americano – un modello, peraltro, superato dagli stessi Stati Uniti, che hanno virato bruscamente verso la protezione del loro mercato e delle proprie filiere strategiche. Se l’Europa saprà trasformarsi da burocrazia amministrativa in potenza economica sovrana, potrà davvero difendere i propri interessi e tornare a dettare le regole del gioco. Ma serve coraggio politico, serve visione, e serve soprattutto l’abbandono di quella sudditanza culturale che oggi spinge i governi a difendere l’inferno fiscale invece di costruire l’alternativa.
Sergio Filacchioni