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Formare l’uomo nuovo: Sottilaro, il Fascismo e l’Operaio di Jünger

by Sergio Filacchioni
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Sottilaro

Roma, 27 mag – Nel dibattito contemporaneo sulla scuola italiana, dominato da un eterno ritorno di soluzioni finto-innovative come l’alternanza scuola-lavoro e il liceo del “Made in Italy”, l’opera di Rosario Sottilaro del 1939, Autarchia e Istruzione professionale dei lavoratori, si impone come lettura utile e necessaria. Questo testo dimostra, dati alla mano e visione alla radice, quanto il Fascismo avesse affrontato con lungimiranza e coerenza uno dei nodi cruciali della modernità: la formazione tecnica e professionale dell’uomo nuovo.

La scuola fascista di Sottilaro

Contrariamente alla vulgata che riduce il Fascismo a una mera glorificazione del liceo classico o all’immagine caricaturale del “libro e moschetto”, emerge da queste pagine una realtà molto più articolata e avanzata. Il progetto fascista, soprattutto con la Carta della Scuola del 1939, si pose l’obiettivo di unificare cultura e lavoro, uomo e mestiere, in una visione formativa completa: non un lavoratore funzionale al capitale, ma un produttore consapevole, orgoglioso del proprio mestiere e partecipe della missione nazionale.

«La Carta della Scuola si richiama al lavoro non soltanto per la formazione professionale dell’artiere, non solo per affinare specialità professionali, ma lo elegge pure, assieme all’addestramento fisico e culturale, a formatore dell’uomo integrale, dell’uomo fascista».

L’addestramento tecnico non era mai disgiunto dalla formazione etica e civica. Il giovane operaio, per il Fascismo, doveva essere prima di tutto un uomo formato, capace di

«levare lo sguardo dal suo campicello arato e dalla sua rovente incudine nel cielo per scorgervi i grandi orientamenti della civiltà moderna» (Bottai).

Alternanza scuola-lavoro? No, scuola-lavoro integrata

La differenza tra il modello Fascista e le attuali sperimentazioni ministeriali è radicale. L’alternanza scuola-lavoro, oggi tanto sbandierata come ponte tra scuola e impresa, è in realtà un modello postmoderno e frammentato, dove lo studente viene catapultato nel mondo produttivo senza reale preparazione né prospettiva formativa. È la subordinazione della scuola al mercato. Il progetto fascista, al contrario, rifiutava la logica utilitarista del lavoro come addestramento passivo. Esso prevedeva una formazione propedeutica al lavoro, strutturata e centralizzata, con istituti pubblici o sindacali, controllati dal Ministero dell’Educazione. Il lavoro non era esterno alla scuola: era nella scuola, ma non ne prendeva il controllo.

«Il lavoratore, nel Regime Fascista, non è più soltanto il prestatore d’opera […]; egli è un partecipe del processo produttivo, egli è interessato al progresso della produzione e alla valorizzazione del prodotto».

L’autarchia come laboratorio nazionale

Sottilaro insiste sull’autarchia non solo come politica economica, ma come laboratorio educativo e formativo. La scarsità di materie prime fu occasione per spingere la specializzazione e l’invenzione tecnica. L’Italia non doveva dipendere dall’estero, nemmeno per le competenze. L’autosufficienza economica si costruiva con l’eccellenza della manodopera nazionale, educata non solo alla pratica ma anche alla fierezza produttiva.

«L’epoca dei generici e dei dilettanti è tramontata. L’autarchia impone a ciascuno la specializzazione. Bisogna creare l’operaio, bisogna formare l’operaio specializzato».

E ancora:

«Il perfezionarsi della produzione, la distribuzione del lavoro, la complessità degli organismi industriali, ha fatto sentire sempre più la necessità che gli operai avessero […] una istruzione specializzata».

Nel sistema delineato, lo Stato e i sindacati corporativi collaboravano per formare quadri operai consapevoli, tecnici esperti, artigiani raffinati. L’apprendistato era regolamentato, i corsi erano gratuiti, e gli attestati davano accesso al collocamento con criteri meritocratici.

«I lavoratori che hanno conseguito i predetti attestati hanno titolo di preferenza […] nei posti disponibili nella azienda presso la quale sono occupati, o in quelle appartenenti alla stessa branca produttiva».

Un confronto con Jünger: l’Operaio come tipo antropologico-politico

Questa visione dell’educazione tecnica, etica e nazionale trova un potente parallelo filosofico nel pensiero di Ernst Jünger, che nel suo Der Arbeiter (1932) prefigura l’avvento di un nuovo tipo umano: l’Operaio. Non più l’individuo borghese, né il proletario marxista, ma l’uomo formato dalla tecnica, temprato dalla disciplina, cosciente della propria forza costruttiva e del proprio destino.

«L’operaio non è più in rapporto di antitesi col datore di lavoro, ma in rapporto di collaborazione […]. Egli sente che i problemi dell’economia nazionale sono anche suoi problemi e li conosce e li intuisce» (Sottilaro).

Similmente, Jünger scrive:

«Non l’operaio come classe, ma l’operaio come tipo: il lavoratore che si assume volontariamente la sua funzione come missione e destino».

Sia per Jünger che per il Fascismo, il lavoro non è alienazione, ma forma di potere e consapevolezza. L’educazione tecnica non è servile, ma aristocratica nel senso più profondo: disciplina, ordine, verticalità. Il lavoratore non è vittima del sistema, ma figura centrale della civiltà moderna, in grado di dominare la tecnica attraverso la forma.

Una lezione attualissima

In un’epoca in cui si riscopre (spesso in modo confuso) il valore dei mestieri, dei saperi manuali e della formazione tecnica, il testo di Sottilaro rappresenta un esempio attuale di come coniugare educazione, lavoro e identità. È un invito a superare la dicotomia tra liceo “nobile” e professionale “di serie B”, e a costruire una scuola capace di formare l’uomo prima ancora del professionista. Il Fascismo seppe affrontare il nodo educativo con una visione d’insieme: spirituale, produttiva e politica. Oggi, dinanzi al fallimento delle riforme globaliste e tecnocratiche, tornare a riflettere su quel progetto potrebbe aiutare l’Italia a ritrovare sé stessa. Non nel passato nostalgico, ma in una tradizione di avanguardia che sapeva cosa voleva:

«Il lavoratore italiano non è più uno strumento quasi estraneo e indifferente agli altrui programmi produttivi, ma è un collaboratore che partecipa della stessa funzione economica e politica che il Regime assegna ai produttori».

Sergio Filacchioni

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