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Gaza, piano Trump: tra i consensi internazionali prende forma un “protettorato”

by Sergio Filacchioni
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piano Trump Gaza

Roma, 1 ott – Washington lancia la sua proposta per spegnere la guerra a Gaza e, come da copione, la mappa della Striscia torna a diventare il vero campo di battaglia politico. Il presidente statunitense Donald Trump ha presentato un piano in 20 punti che promette la cessazione immediata delle ostilità, la liberazione di tutti gli ostaggi, la ricostruzione della Striscia e l’avvio di un governo provvisorio a guida palestinese. Soprattutto, prevede un ritiro graduale delle forze israeliane, con il passaggio progressivo di ampie porzioni di territorio a un’amministrazione palestinese.

Il sostegno internazionale al piano Trump

Il punto debole del progetto è però chiaro fin dall’inizio: mancano date e scadenze vincolanti. L’assenza di un calendario per i ritiri rende fragile ogni promessa. Secondo i calcoli dell’ISPI, se la linea del fronte rimanesse congelata oggi, tra il 75 e l’80% della Striscia resterebbe sotto controllo israeliano. Solo al termine dell’ultimo ritiro, la quota a maggioranza palestinese potrebbe arrivare intorno al 70%. Il piano ha comunque riscosso un consenso generale “inaspettato”. L’Unione europea si schiera apertamente a favore dell’iniziativa. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen scrive su X: “Accogliamo con favore l’impegno di Trump a porre fine alla guerra a Gaza. L’Ue è pronta a dare il proprio contributo. La soluzione a due Stati resta l’unica via praticabile per una pace duratura”. Sulla stessa linea il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, che invita le parti a “cogliere questa occasione” e sollecita la liberazione immediata di tutti gli ostaggi. Un coro di consensi arriva anche da Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Indonesia, Turchia e Pakistan, che in una dichiarazione congiunta parlano di “disponibilità a cooperare positivamente con gli Stati Uniti per finalizzare e applicare il piano”, accogliendo con favore la promessa americana di non consentire l’annessione della Cisgiordania. Infine, anche l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) definisce “sinceri e determinati” gli sforzi di Trump, intravedendo nella proposta una possibile via per fermare il conflitto e riprendere un percorso negoziale.

Ue, 1,44 miliardi per Gaza

Mentre il piano Trump apre un nuovo fronte negoziale, Bruxelles ha varato un maxi-pacchetto da 1,44 miliardi di euro destinato alla popolazione palestinese. La cifra, frutto del cosiddetto Team Europa – che riunisce Commissione Ue, Stati membri e Banca europea per gli investimenti (BEI) – unisce aiuti umanitari immediati e linee di credito per le piccole e medie imprese palestinesi. L’ultima tranche, annunciata a margine dell’Assemblea generale Onu del 24 settembre, stanzia 450 milioni di euro, di cui 50 milioni per emergenze a Gaza e in Cisgiordania e 400 milioni come sostegno al tessuto economico locale. La presidente della BEI Nadia Calviño ha parlato di “impegno concreto verso le popolazioni e le imprese palestinesi colpite dalla guerra”, mentre a Gaza gli ospedali sopravvivono con generatori d’emergenza e i prezzi del cibo sono aumentati del 1.400% dall’inizio dell’offensiva israeliana. Secondo l’Onu, oltre il 90% dei residenti è stato sfollato almeno una volta, con la Striscia entrata ufficialmente in fase 5 di carestia (IPC): mezzo milione di persone in condizioni disperate e un altro milione in stato di emergenza grave. L’iniziativa europea non è quindi soltanto economica: risponde a una pressione politica interna sempre più forte, con l’opinione pubblica europea critica verso l’operazione israeliana a Gaza e diversi Paesi – da Spagna a Irlanda e Norvegia – che hanno già riconosciuto lo Stato palestinese. Bruxelles cerca di bilanciare aiuti immediati e sostegno strutturale per evitare il collasso definitivo di un’economia già devastata da embargo, distruzione di infrastrutture e disoccupazione giovanile oltre il 60%.

Israele diviso sul piano Trump

Se sul fronte diplomatico la reazione è stata inaspettatamente costruttiva, sul campo le cose sono diverse. Hamas, che controlla di fatto Gaza, ha dichiarato di voler ricevere il testo ufficiale “in forma scritta e chiara” prima di esprimere un giudizio. Un suo alto funzionario, Muhammad Mardawi, ha comunque avvertito che il progetto “pende verso la prospettiva israeliana” e riflette “le condizioni che Netanyahu insiste per mantenere la guerra”. Ancora più netta la Jihad Islamica Palestinese (PIJ), che parla di “ricetta per una continua aggressione contro il popolo palestinese” e accusa Israele di voler imporre tramite Washington ciò che “non è riuscito a ottenere con la guerra”. Ma anche sul fronte sionista si avvertono spaccature. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accolto con favore l’iniziativa americana, ma deve fare i conti con l’opposizione interna: il ministro dell’Economia e leader dell’estrema destra Bezalel Smotrich ha bollato il piano come “un clamoroso fallimento diplomatico” e “un chiudere gli occhi di fronte alle lezioni del 7 ottobre”, convinto che “i nostri figli saranno costretti a combattere di nuovo a Gaza”. All’interno della coalizione emergono timori che l’eventuale creazione di un’entità palestinese autonoma nella Striscia possa favorire il ritorno di Hamas al potere locale e compromettere l’obiettivo sbandierato da tre anni dalla propaganda di Netanyahu sul “smantellare l’infrastruttura terroristica” di Gaza. Altri esponenti, vicini al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, si oppongono a qualunque percorso che possa preludere a uno Stato palestinese, ritenendolo una minaccia esistenziale per Israele. Netanyahu, pur sostenendo il piano Trump, evita di sbilanciarsi sulle tempistiche del ritiro militare per non spaccare definitivamente la maggioranza.

Un “piano di pace” che suona come diktat

Trump ha concesso ad Hamas pochi giorni per valutare la proposta. Ma le incognite restano molte: nessuna garanzia sui tempi di ritiro israeliano, fratture politiche interne allo stesso governo di Tel Aviv, divisioni tra le fazioni palestinesi e il rischio di un ritorno alle armi in caso di stallo. La foto scattata oggi dal piano statunitense mostra dunque un cessate il fuoco ancora appeso a un filo, sospeso tra diplomazia e logica di guerra. Un compromesso che piace a Washington, a Bruxelles e a diverse capitali arabe, ma che sul terreno di Gaza deve ancora convincere chi impugna le armi. Perchè se per “piano di pace” in Palestina si intende un protettorato di Usa e Israele, con il congelamento dell’occupazione militare e la totale rinuncia anche all’ipotesi di uno Stato palestinese, allora è un errore chiamarlo pace.

Sergio Filacchioni

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