Roma, 31 mag – Il 27 maggio del 1933, Martin Heidegger pronunciava il celebre Discorso di rettorato come neoeletto rettore dell’Università di Friburgo. Più che un semplice discorso accademico, fu una dichiarazione programmatica sul senso dell’Università, sul sapere e sul destino di un popolo. Oggi, a distanza di oltre 90 anni, quelle parole sono ancora un pugno sul tavolo – tanto più in un’epoca dove l’università sembra sempre più smarrita tra burocrazia, internazionalismo apolide e produttivismo senza scopo.
L’Università come forma dello spirito di un popolo
Di Martin Heidegger si conoscono due immagini contrapposte e parziali. Da un lato, il filosofo dell’Essere, autore oscuro e venerato, confinato nei seminari accademici e nei manuali universitari. Dall’altro, il “nazista” compromesso, frettolosamente inserito nel catalogo dei cattivi maestri del Novecento. Quasi nessuno, però, conosce Heidegger pedagogo. Eppure, è forse questa una delle sue vesti più potenti e più attuali: quella del pensatore che assume la guida di un’Università non per gestirla, ma per plasmarla come istituzione organica dello spirito nazionale. Per Heidegger, l’Università non è un’azienda di formazione né un supermercato del sapere. È invece un punto mediano, una quadratura in se stessa, «la potenza della più profonda custodia delle sue forze di terra e sangue, in quanto potenza della più intima vivacità e del più ampio sconvolgimento del suo Dasein» Con “Dasein” – un termine centrale nel pensiero di Heidegger – si intende il “modo d’essere qui” proprio dell’uomo storico, non come individuo astratto ma come appartenente a una comunità, un popolo, un destino. L’Università, dunque, non può essere neutra: essa deve prendere posizione, formare, dirigere. «Assumere l’incarico di rettore significa accettare l’obbligo e la responsabilità della direzione spirituale di questa Alta Scuola di studi». Una direzione spirituale, non amministrativa.
I tre vincoli: lavoro, difesa, sapere
Heidegger individua tre legami costitutivi per lo studente universitario: il servizio del lavoro, il servizio della difesa e il servizio del sapere. Questi non sono imposti dall’esterno, ma emergono dall’essenza stessa dell’appartenenza a un popolo che intende esprimere il proprio destino. «Darsi da se stessi la legge è la più alta libertà», e ancora, «il primo vincolo è quello stretto con la comunità del popolo… Il secondo vincolo è quello stretto con l’onore e con il destino della nazione… Il terzo vincolo è quello stretto con la missione spirituale del popolo tedesco». Quello che Heidegger si propone è un modello di studente attivo, responsabile, partecipe. Altro che “diritto allo studio” come rivendicazione passiva o università come ufficio di collocamento per laureati frustrati. Qui lo studente è soldato dell’intelletto, lavoratore dello spirito, custode del popolo. In questo quadro l’idea di sapere scientifico non ha nulla a che fare con l’accumulazione di dati o la specializzazione sterile. Al contrario, «ogni sapere scientifico è filosofia, che sia capace di saperlo e di volerlo – oppure no». Il sapere è tale solo se resta vicino al mistero, al non-saputo: «Il sapere scientifico è l’interrogante e stabile stanziarsi nel bel mezzo dell’ente che, colto nella sua interezza, costantemente si nasconde». E ancora: «Il sapere non sta al servizio delle professioni, ma, all’opposto: le professioni ottengono, amministrano e rendono operante quel supremo ed essenziale sapere del popolo intorno all’intero suo Dasein». Non è l’università al servizio dell’economia, ma l’economia al servizio della verità e della forma storica dell’essere.
Contro la neutralità: l’università è politica o non è nulla
Una delle più gravi illusioni contemporanee – e purtroppo accettata anche da una certa destra moderata – è quella della neutralità dell’istruzione. Si dice che scuole e università debbano essere “apolitiche”, “imparziali”, “luoghi tecnici” dove si formano competenze, non coscienze. Ma per Heidegger questa è una menzogna che paralizza. Nel Discorso di rettorato, l’università è dichiaratamente e necessariamente super-politica: essa non è partigiana, ma è profondamente schierata. Non con un partito, ma con la missione storica di un popolo. Non si limita a istruire: plasma, orienta, seleziona, guida. «L’università tedesca perverrà alla sua forma e alla sua potenza proprie solo se i tre servizi – il servizio del lavoro, della difesa e del sapere – sapranno ritrovarsi insieme, originariamente, in un’unità che costituisca un’unica forza capace di imprimere la propria impronta». E ancora più chiaramente: «La “libertà accademica” […] significava prevalentemente: indifferenza, arbitrarietà delle intenzioni e delle inclinazioni, mancanza di vincoli nel fare e nel disfare». Dunque, un’università che si dichiara “neutrale” in realtà rinuncia alla propria essenza. Per Heidegger, o l’università forma uomini capaci di interrogare il senso del mondo, e dunque di guidare il proprio popolo nel tempo storico, oppure è un’anticamera della decadenza. In un’epoca in cui le università sono colonizzate da ideologie globaliste, wokiste e mercatiste, continuare a invocare la neutralità significa consegnarsi mani e piedi al nemico, fingendo di non sapere che ogni vuoto viene occupato. La scelta insomma è quella tra la sottomissione culturale e la ricostruzione spirituale.
Rifondare la scuola pubblica: gerarchia, destino, popolo
Se vogliamo che l’Università – e, più a monte, la scuola – torni a essere ciò che Heidegger indica nel Discorso di rettorato, non possiamo delegare il compito a istituzioni private o accademie esclusive. Il rinnovamento deve passare attraverso la scuola pubblica, proprio perché è lì che si forma il corpo vivo del popolo, la comunità nazionale nel suo farsi quotidiano. Heidegger non voleva un’élite separata, ma guide nate dentro il popolo, educate nella sua lingua, temprate dalle sue prove, legate alla sua terra. Il sapere ha senso solo se radicato nel destino storico di una comunità. Per questo, nel cuore del suo discorso, egli parla dei tre vincoli fondamentali dello studente: il lavoro, la difesa, il sapere, tutti orientati alla missione spirituale del popolo. La scuola pubblica può rinascere soltanto se recupera una gerarchia fondata sul merito e sulla responsabilità, se ogni studio viene ricollegato alla costruzione di un destino comune, e se la relazione tra docenti e allievi si ricompone come corpo organico chiamato a condividere un compito storico. La neutralità, l’arbitrio, l’atomizzazione devono lasciare il posto all’ordine, alla disciplina, al senso di missione. La libertà non è la dissoluzione di ogni vincolo, ma l’assunzione consapevole di una legge interiore, che ci obbliga a essere ciò che dobbiamo essere. Non serve privatizzare: serve sacralizzare. Non serve distinguere “le eccellenze” dai “normali”: serve esigere da tutti la forma. Così, e solo così, la scuola tornerà a essere – come voleva Heidegger – la fucina delle guide e dei custodi del destino nazionale.
Sergio Filacchioni