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Israele attacca ancora. L’escalation che ridisegna il Medio Oriente

by Sergio Filacchioni
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Israele

Roma, 13 giu – L’attacco del 13 giugno 2025 ai siti nucleari, militari e a figure chiave dell’apparato strategico iraniano – incluso il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri – non è soltanto un episodio bellico. Per Israele è l’ennesimo tassello di una strategia più ampia, sistematica, che coinvolge Gaza, la Cisgiordania, il Libano e ora Teheran. Ma come va interpretata davvero questa escalation?

Israele punta all’escalation

Chi pensava che Israele si sarebbe accontentato di radere al suolo Gaza ha clamorosamente frainteso il disegno in atto. Dopo aver colpito a più riprese in Libano, Yemen, Siria e Iraq, Netanyahu ha dato il via a un attacco diretto contro l’Iran, colpendo con precisione chirurgica siti nucleari e figure chiave del complesso militare-scientifico di Teheran. Non si tratta più di operazioni contro milizie o territori occupati, ma di un’aggressione frontale contro uno Stato sovrano, dotato di capacità belliche avanzate. Un atto di guerra deliberato, mascherato da “prevenzione”, che rischia di incendiare l’intero scacchiere mediorientale. Il piano era già scritto: impedire in ogni modo che Teheran possa utilizzare l’uranio arricchito per scopi civili – e, paradossalmente, spingerla così a farne uso militare. Tutto questo sta avvenendo nel silenzio complice delle grandi potenze, mentre si consuma sotto i nostri occhi la più pericolosa ridefinizione degli equilibri mondiali dalla fine della Guerra Fredda.

Israele come nuovo polo energetico

Chi legge lo scenario con occhi disillusi, al di là della retorica occidentale sulla “sicurezza”, nota facilmente che Israele non è più l’isolato avamposto mediorientale dell’Occidente. Negli ultimi due anni, Tel Aviv ha costruito una fitta rete di relazioni con quasi tutte le monarchie del Golfo, approfittando di una congiuntura globale caotica e sfruttando la rivalità tra India e Cina. In parallelo, è emersa la nuova funzione di Israele come hub energetico – anche grazie agli accordi sul gas con l’Egitto e al corridoio IMEC (India-Medio Oriente-Europa). In breve: una Grande Israele energetica e commerciale prende forma con la complicità, o quanto meno il silenzio, delle dirigenze arabe. Un’alleanza che poco ha a che vedere con la narrativa dell’“unico stato democratico della regione”, e molto con i flussi finanziari e le sfere d’influenza. Non va dimenticato, inoltre, che questa accelerazione bellica di Israele risponde anche a logiche interne: Benjamin Netanyahu, politicamente indebolito, sotto pressione giudiziaria e contestato da ampie fasce della società israeliana, ha trovato nell’offensiva regionale un doppio strumento di sopravvivenza politica e di distrazione strategica. La guerra come coesione interna, il nemico esterno come collante di un paese profondamente diviso.

Israele si allontana dall’Occidente

L’operazione militare israeliana è anche la cartina di tornasole di un nuovo disallineamento internazionale. Non è un caso che gli Stati Uniti si siano affrettati a precisare la loro estraneità all’attacco. Una posizione tutta da verificare, ovviamente: anche quando sembrano defilati, gli Stati Uniti sanno giocare un ruolo chiave nel facilitare – o coprire – l’espansionismo militare israeliano, in nome di un ordine regionale che non ha nulla di spontaneo, e ancor meno di stabile. La Russia si è limitata a un comunicato formale e vago sull’escalation. La Cina ha espresso “preoccupazione”, senza però compromettere i suoi rapporti energetici con Teheran né con le monarchie del Golfo. India e Giappone? Guardano e tacciono, occupandosi solo dei propri connazionali. L’unico a condannare l’azione è stato il Vecchio Continente. L’UE, tramite la Farnesina, ha parlato chiaramente di “azione unilaterale” che mina gli sforzi diplomatici, e l’Alto Rappresentante ha chiesto un ritorno al dialogo. Ma, ancora una volta, la voce europea è flebile e priva di peso reale in una regione dove la forza, non la retorica, detta la linea.

Iran, la deterrenza è crollata

L’Iran è di fronte a un bivio storico. Due momenti chiave hanno segnato la progressiva perdita della sua deterrenza: l’attacco a Ismail Haniyeh sul suolo iraniano, che non ha avuto risposta significativa, e poi l’eliminazione di Sayyed Hassan Nasrallah, anche questa rimasta senza una rappresaglia decisiva. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Teheran è ora vulnerabile e isolata, e Netanyahu si è spinto fino a minacciare pubblicamente la Guida Suprema iraniana. Due le opzioni per l’Iran, e nessuna indolore: una risposta militare convenzionale immediata e ad alto impatto, che però rischierebbe di scatenare una guerra regionale su larga scala; l’accelerazione del programma nucleare, unica vera garanzia rimasta per evitare un cambio di regime spinto dall’esterno. Senza una di queste due vie, il prossimo passo potrebbe davvero essere la dissoluzione dell’attuale assetto iraniano.

Una crisi che (forse) non esploderà, ma che cambia tutto

Parlare di “terza guerra mondiale” è esercizio per vecchi antagonisti che sognano l’apocalisse come via di fuga. La realtà, però, è diversa. Più che un’escalation drammatica, è in atto una riedizione globale delle alleanze. Israele si avvicina sempre più al Sud Globale (India, Golfo, Africa orientale), si emancipa dai legami storici con l’Europa, e rende più sbilanciato il rapporto con Washington. Gli Stati Uniti, indeboliti sul piano interno e con l’attenzione ancora focalizzata sul Pacifico e su Taiwan, non sono più in grado di contenere tutte le derive dei propri alleati. Al contrario, in questo disordine, si apre uno spiraglio interessante per l’Europa: sganciarsi gradualmente dalla subalternità atlantica e cercare canali autonomi di influenza. La diplomazia navale (missioni EMASoH e Aspides), le rotte energetiche e le sinergie infrastrutturali col Golfo possono trasformarsi da necessità tecniche in strumenti geopolitici.

Dalla guerra al nuovo ordine

In questo contesto, appare sempre più chiaro come il Medio Oriente stia diventando teatro di una nuova forma di colonialismo strategico, mascherato da lotta al terrorismo o da “guerra preventiva”. Dopo la spartizione della Siria da parte di Turchia, USA e Israele oggi si assiste a un’esportazione metodica di quello stesso modello: attacco, destabilizzazione, inserimento di interessi esterni. Israele agisce con sempre maggiore autonomia e aggressività, spalleggiato da silenzi assordanti e da equilibri internazionali favorevoli. Il vero pericolo non è la guerra totale, ma l’ordine che ne nascerà. Un ordine dove Israele si pone come potenza regionale strutturata e in grado di influenzare rotte, leadership e sistemi energetici. E dove l’Europa, se non deciderà di giocare una partita autonoma e pragmatica, resterà ancora una volta spettatrice della sua stessa marginalizzazione.

Sergio Filacchioni


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