Roma, 13 ago – L’ultimo rapporto della Banca d’Italia fotografa un Paese che, a conti fatti, non si muove da quindici anni. Dal 2008, al netto dello shock pandemico, la crescita media annua è rimasta prossima allo zero. I consumi delle famiglie sono ancora inferiori a quelli del 2007 e la produzione industriale è crollata di oltre il 30% rispetto ai picchi pre-crisi. L’export ha retto, regalando un surplus commerciale record e una posizione patrimoniale netta verso l’estero in attivo, ma la domanda interna resta fiacca, compressa da salari stagnanti e da un mercato immobiliare asfittico.
Il rapporto della Banca d’Italia inchioda anni di retorica
Quello che in molti leggono come una fisiologica “ricomposizione” dell’economia verso i servizi, in realtà è una regressione. Il passaggio dall’industria a settori a bassa produttività – turismo, ristorazione, commercio – non è una scelta strategica, ma la conseguenza dell’abbandono di una politica industriale. I nuovi occupati si concentrano in lavori che richiedono più braccia che tecnologia, con paghe da fame e prospettive limitate. È in questa logica che si inserisce anche il Decreto Flussi, che non risponde a un reale fabbisogno industriale ma alimenta un mercato del lavoro a bassa qualificazione, funzionale a un’economia che rinuncia alla manifattura e si specializza nel servire, anziché nel produrre. Ritratto di un Paese che rinuncia ad investire nel progresso tecnologico, che non scommette sull’innovazione e che vive della rendita turistica, contendendosi flussi di visitatori con economie molto più povere. Il modello export-led che aveva garantito un avanzo estero robusto negli ultimi anni è oggi messo in discussione. La nuova stagione di barriere commerciali, inaugurata dalla politica tariffaria statunitense e alimentata dalla competizione globale sulle filiere strategiche, riduce gli spazi per chi compete solo sul prezzo. Per un Paese privo di materie prime e con una manifattura decimata, continuare a contare sull’export come unico motore significa esporsi a ogni cambio di vento della geopolitica.
Le grandi opere non sono un lusso
In questo scenario, l’idea che grandi opere come il Ponte sullo Stretto siano una spesa inutile è più il sintomo di una senilità avanzata che un’analisi economica. Un’infrastruttura di questo tipo non è un monumento al cemento, e nemmeno un “lusso che non possiamo permetterci”, ma una leva di politica industriale. Significa riattivare filiere produttive – dall’acciaio alla sensoristica, dalla cantieristica ai sistemi ferroviari – che oggi vivono di commesse frammentarie. Significa collegare la Sicilia e il porto di Gioia Tauro alla dorsale ad alta capacità, riducendo tempi e costi di trasporto e trasformando l’Italia in un nodo logistico centrale per il Mediterraneo, proprio mentre le rotte marittime globali si ridisegnano. Il Ponte, come altre opere strategiche, è anche una delle poche forme di spesa pubblica che aumentano lo stock di capitale e la produttività futura, anziché limitarsi a sostenere i consumi nel breve periodo. Inserito nei corridoi europei TEN-T e potenzialmente valorizzato come infrastruttura dual use civile e militare, può attrarre fondi e cofinanziamenti, a patto di essere gestito con clausole chiare di contenuto locale e trasferimento tecnologico. Il vero rischio non è costruirlo, ma costruirlo senza un disegno più ampio, lasciando che si esaurisca come cantiere isolato.
Il benaltrismo che ci blocca
A questo si aggiunge un equivoco ricorrente: il mito del “c’è ben altro da fare”. I fondi destinati al Ponte sullo Stretto sono in larga parte vincolati e non sottraggono risorse ad altri settori. Se altre aree del Paese rimangono a secco di investimenti non è perché il Ponte li drena, ma perché per decenni le risorse disponibili si sono disperse in una miriade di progetti inutili, privi di visione strategica e di vera concertazione territoriale. Il problema, dunque, non è fare il Ponte: è non avere una regia nazionale capace di concentrare gli investimenti in opere ad alto impatto economico e infrastrutturale. Alcuni esempi su tutti: la perdita progressiva di presidi industriali strategici come il nucleare (già alla fine degli anni ’80), Iveco, Fiat o l’Ilva di Taranto. Comparti ad alto valore aggiunto lasciati deteriorare o svenduti, senza un piano di rilancio nazionale, mentre miliardi finivano in opere frammentarie incapaci di generare sviluppo duraturo. Se davvero l’economia italiana è ferma dal 2008, allora non c’è scelta: o si accetta la lenta deriva verso un’economia di servizi poveri e manodopera straniera, o si apre un ciclo di investimenti infrastrutturali e industriali capace di ricostruire competenze, manifattura e logistica avanzata.
L’unica priorità è rifare l’Italia industriale
Del resto, ogni volta che si è detto “ci sono altre priorità” il risultato è stato sempre lo stesso: niente ponte e nessuna alternativa concreta. Dal governo Monti ai 5 Stelle, i fondi promessi al Sud si sono dispersi tra penali, spese contrattuali e capitoli privi di regia, senza opere equivalenti. Oggi il progetto è pronto e finanziato: come dimostrano casi come Øresund o il Confederation Bridge, un ponte può essere un potente acceleratore di sviluppo. In un mondo che si muove verso la regionalizzazione delle catene di approvvigionamento, rinunciare a rafforzare la nostra “mano” nel Mediterraneo significa condannarsi a margini sempre più bassi e a un ruolo periferico. No, il Ponte sullo Stretto non è la “panacea di tutti i mali”, come potrebbe sostenere sarcasticamente qualcuno. Può essere uno degli strumenti per rimettere in moto davvero l’Italia. L’alternativa è restare fermi a pensare a ben altro, cioè a niente.
Sergio Filacchioni