Roma, 1 lug – La questione migratoria torna al centro del dibattito politico, e lo fa nel modo più asettico possibile: cinquecentomila ingressi regolari in tre anni, tutto previsto, tutto “programmato”, senza nessuna crisi emotiva del mainstream legata a qualche foto strappalacrime. Il nuovo decreto flussi viene presentato come necessaria risposta a un fabbisogno occupazionale “calcolato”, quasi che i cittadini italiani fossero spettatori irrilevanti di un processo tecnico, neutro, inevitabile. Ma dietro la razionalità apparente della “programmazione” si cela una scelta di sistema, già vista, già fallita, eppure riproposta in fotocopia.
Decreto flussi: importare forza lavoro
A ben vedere, è lo stesso paradigma che guidò le politiche di immigrazione della Francia e della Germania negli anni del boom postbellico: importare forza lavoro, iniettare produttività, e immaginare che il ciclo si chiudesse con un rimpatrio spontaneo. Ma la storia non è una catena di produzione: gli uomini non sono rotelle intercambiabili, e così quella “forza lavoro” si radicò, crebbe, chiese cittadinanza, rivendicò diritti. L’astrazione economica produsse una realtà antropologica nuova, e con essa il carico di tensioni, fratture, e insicurezze che oggi caratterizzano le metropoli occidentali. A questo schema — già analizzato lucidamente da Enoch Powell – si aggiunge oggi un’aggravante tutta italiana: non solo si persevera in una visione fallace, ma lo si fa in un contesto di declino strutturale e demografico, dove la politica rinuncia perfino a fingere una visione nazionale. Invece di intervenire per modernizzare i settori chiave dell’economia (agricoltura, logistica, edilizia), renderli attrattivi per i giovani, aumentare i salari e favorire un reale incontro tra domanda e offerta, si opta per la scorciatoia più conveniente per le imprese: svalutazione umana tramite importazione etnica.
Due visioni inconciliabili dell’antropologia politica
È qui che il discorso si fa più profondo. Perché il vero punto non è la gestione dei numeri, ma la concezione dell’uomo e del corpo sociale che la sottende. La sostituzione dell’italiano inoccupato con il migrante disponibile, del lavoratore con radici con il lavoratore fungibile, è parte di una visione che riduce l’identità a funzione e la cittadinanza a prestazione. In un simile quadro, il conflitto non è tra “apertura” e “chiusura”, ma tra due visioni inconciliabili dell’antropologia politica: da un lato l’uomo-consumatore, flessibile e de-localizzabile, dall’altro l’uomo radicato, con una comunità, una storia, un territorio da difendere. In questo senso, il decreto flussi non è solo un provvedimento amministrativo, ma un segnale culturale profondo: l’idea che l’Italia possa sopravvivere a prescindere dagli italiani.
Il diritto di plasmare il futuro sull’identità
E infatti, come già denunciato mesi fa su queste stesse pagine, si è passati dall’accoglienza all’importazione, con progetti di formazione per immigrati già in atto in Ghana, finalizzati a colmare “buchi occupazionali” italiani. Un outsourcing dell’identità, che prepara il lavoratore straniero alla sua funzione nel nostro Paese prima ancora che arrivi. Il flusso non è più emergenziale ma pianificato. Il problema, allora, non è solo quantitativo. È filosofico, esistenziale, storico, tecnologico. Una nazione può sopportare una crisi economica, può uscire da un declino industriale. Ma difficilmente può riprendersi se rinuncia alla propria continuità antropologica, se abdica al diritto di plasmare il proprio futuro secondo la propria identità. Ecco perché non si può restare neutrali di fronte a un decreto apparentemente tecnico: perché non è “un decreto tra tanti”, ma il sintomo di una resa sistemica.
Sergio Filacchioni