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Ora L’Espresso vuole federare l’Europa: avranno letto Il Primato?

by Sergio Filacchioni
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L'Espresso

Roma, 15 lug – Sulla copertina dell’ultimo numero de L’Espresso campeggia una bandiera europea ridisegnata come la “Stars and Stripes” americana. Il titolo è chiaro: “Stati Uniti d’Europa”. Nell’editoriale firmato da Emilio Carelli si legge una diagnosi che, almeno nella sua parte iniziale, risulta persino condivisibile: l’Europa oggi conta poco, non riesce a imporsi nello scenario globale, si limita a inseguire le iniziative altrui – spesso in ritardo – siano esse di Washington, Pechino o Mosca. Nulla che non sia già stato scritto, anche da queste colonne, in molte occasioni.

L’Espresso si sveglia dal letargo

Secondo L’Espresso, la soluzione sarebbe quella di “federarsi o soccombere”, cioè completare il progetto politico europeo con una vera unione federale, superando le “27 voci dissonanti” degli Stati membri. Ma c’è una domanda preliminare che resta inevasa e senza la quale qualsiasi proposta rischia di essere monca: chi ha ridotto l’Europa a questa marginalità? Adriano Romualdi avrebbe risposto con un secco: “L’antifascismo!”, intendendo con questa parola quella che lui definiva “la conservazione dello spirito di Yalta in Europa”, cioè il mantenimento di un assetto culturale e politico eterodiretto e subalterno. Naturalmente, non ci aspettiamo che L’Espresso arrivi a simili livelli di autocritica. Nel lungo editoriale, infatti, non si trova nemmeno un tentativo di risposta alla questione delle responsabilità. Eppure sarebbe sufficiente rileggere le cronache degli ultimi decenni per individuarle chiaramente. La verità è che a svuotare l’Europa di forza e significato è stata proprio la retorica cosmopolita, il rifiuto delle radici identitarie europee, il dogma della “società aperta”, la dissoluzione dei confini – non solo geografici, ma spirituali e culturali. Si è preferito parlare di diritti individuali scollegati da ogni senso di appartenenza, si è ridotta l’Europa a una macchina burocratica e monetaria, priva di visione storica e strategica. E oggi, di fronte al nuovo ordine in cui USA, Russia e Cina si muovono con logiche da potenza, ci si accorge che quest’Europa non regge l’urto.

Una finta postura antiamericana

Non bisogna farsi fuorviare: l’appello dell’Espresso arriva in un contesto internazionale ben preciso. Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump che ha scosso profondamente i custodi dell’ordine liberal-progressista. E così si prova a giocare di rimessa: la proposta di federare l’Europa rischia infatti di essere meno un progetto di indipendenza autentica e più una mossa per trasformare l’Unione Europea in una sorta di “ridotta” del mondialismo progressista, senza dover più dipendere dai capricci di Washington. “Il male americano è una malattia sottile”, scrisse Giorgio Locchi. E in questo caso si manifesta proprio così: chiedere l’indipendenza europea non per costruire una civiltà di potenza, ma per difendere la versione più decadente e decostruzionista dell’eredità americana. La bandiera in copertina parla da sola: le stelle e le strisce cambiano solo di colore. È il simbolo di un’operazione culturale che si presenta come una “postura antiamericana”, ma di fatto finisce per tutelare proprio ciò che di più tossico ci arriva da oltreoceano. Lo si vede nei toni entusiastici di certa sinistra verso leader come Pedro Sánchez o Lula, esaltati per la loro opposizione a Trump, ma sempre pronti a sostenere l’agenda woke e globalista. Il problema quindi non è federare o non federare l’Europa. La questione vera è: su quali basi culturali, antropologiche e politiche costruire un fronte europeo degno di questo nome?

Prendere l’iniziativa

Oltre le tardive riscoperte “euronazionali” (o euronaziste che dir si voglia) de L’Espresso, il tema dell’Europa va preso sul serio adesso, prima che lo colonizzino loro. Il rischio è sempre lo stesso: lasciare il campo libero a chi si presenta con le nostre stesse parole, ma con intenzioni opposte. È già accaduto sull’energia, sull’ambiente, sul lavoro. Ora tocca all’Europa. Chi ha lavorato per anni a demolire l’identità europea oggi si propone come salvatore del continente. Ma per fare cosa? Per spingere verso una federazione senz’anima, commissariata dall’alto, che continui a riprodurre lo stesso globalismo tecnocratico e post-identitario che ha già ridotto l’Europa a un ingranaggio secondario del mondo. Se chi ha a cuore l’Europa come civiltà non prenderà l’iniziativa subito, il discorso europeo verrà rifatto da chi vuole solo un contenitore istituzionale per i propri progetti ideologici post-identitari, mentre l’opposizione sarà lasciato ad un sovranismo sempre più bizzarro e confuso. Non si tratta quindi di respingere ogni idea di Europa comune, ma di ridefinirne le fondamenta. L’Europa non può essere un laboratorio di ingegneria sociale travestito da federazione, né un mercato burocratico travestito da potenza. Deve tornare a essere un soggetto geopolitico e spirituale, radicato nella propria storia ma proiettato nel futuro. In questo senso, la parola chiave non è “federazione”, ma Europa Potenza: un continente che smetta di essere il campo da gioco altrui e torni a essere un protagonista, capace di difendere i propri interessi e la propria civiltà. Se non la portiamo avanti noi questa narrazione, lo faranno altri. E la rifaranno a loro brutta immagine e somiglianza.

Sergio Filacchioni


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