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LGBTIQ+ 2026-2030: quando Bruxelles sostituisce la politica con la morale

by Sergio Filacchioni
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LGBTIQ+ 2026-2030

Roma, 9 ott – Ieri a Bruxelles la Commissione europea ha presentato la nuova Strategia LGBTIQ+ 2026-2030. Un documento di oltre cinquanta pagine che aggiorna e amplia le linee guida della precedente strategia per l’uguaglianza di genere e di orientamento sessuale. Tra gli obiettivi dichiarati: contrastare le “pratiche di conversione”, estendere la protezione contro i crimini d’odio e potenziare il finanziamento alle organizzazioni impegnate sul tema dei diritti civili. Nel quadro finanziario pluriennale, i fondi destinati ai programmi di uguaglianza e inclusione dovrebbero raddoppiare, raggiungendo circa 3,6 miliardi di euro.

Un piano amministrativo che diventa pedagogia

Si tratta, formalmente, di un piano amministrativo. Ma nella sostanza la nuova strategia conferma una tendenza ormai consolidata: la trasformazione dell’Unione in un soggetto morale e non-politico. Mentre i principali dossier politici restano irrisolti — dalla guerra in Ucraina alla dipendenza energetica, fino alla crisi demografica — la Commissione continua a investire energie e risorse in un’agenda valoriale che assume i tratti di una pedagogia ideologica permanente. L’Unione europea non vuole parlare il linguaggio della potenza, ma quello della religione dei diritti civili. Non costruisce infrastrutture strategiche, ma quadri normativi sulla condotta sociale: ultimo esempio di cui abbiamo già parlato il cosiddetto “Chat Control”. Fatica a finanziare un esercito comune, ma trova tutte le risorse per una rete di ONG e progetti di sensibilizzazione. La “Strategia LGBTIQ+” diventa così un simbolo del modo in cui l’attuale classe dirigente di Bruxelles cerca legittimazione: non attraverso la capacità di difendere o produrre, ma attraverso la gestione morale dei comportamenti e delle opinioni.

Una crisi strutturale di potenza

Il riferimento al contrasto del “discorso d’odio” ne è un esempio. Nelle intenzioni, si tratta di un’estensione delle tutele; nella pratica, il rischio è che la categoria dell’odio diventi uno strumento di censura preventiva, con definizioni elastiche e potenzialmente applicabili a qualsiasi posizione non conforme alla linea culturale progressista. Allo stesso modo, il riferimento all’educazione “inclusiva” nelle scuole si traduce spesso in linee guida che non lasciano spazio a un reale pluralismo educativo, ma solo all’adesione a un modello unico di antropologia sociale. Non è una questione di opposizione ai diritti individuali. È una questione di priorità politica. L’Europa affronta oggi una crisi strutturale di potenza: la sua industria energetica è dipendente, la sua capacità militare frammentata, la sua politica estera condizionata da Washington e dagli equilibri interni alla NATO. In questo contesto, la produzione iper-normativa serve più a occupare uno spazio simbolico che a risolvere i problemi reali che affliggono i popoli europei: calo demografico in primis.

La politica sostituita dalla morale

Il linguaggio dei diritti diventa una lingua amministrativa che rimpiazza quello della politica, con un effetto anestetico: di fronte alle difficoltà materiali — energia, sicurezza, lavoro, natalità — si preferisce parlare di inclusione e discriminazione. Eppure, l’errore più diffuso, nel dibattito sull’Unione europea, è considerare iniziative come la Strategia LGBTIQ+ come espressioni inevitabili di un destino burocratico. In realtà, queste scelte rispecchiano un preciso orientamento politico e culturale della Commissione, non un vincolo strutturale dell’integrazione europea. L’Europa potrebbe imboccare altre strade: investire nella difesa comune, nella riconversione industriale, nella sovranità energetica o in una politica demografica condivisa. Non esiste una sola “Europa possibile”. Esiste un’Europa che sceglie dove guardare. E se oggi guarda soprattutto alla regolazione dei comportamenti, è perché la politica ha abdicato alla propria funzione strategica. Restituire alla politica la guida dell’integrazione europea — e alla cultura la libertà di non essere amministrata — significa rimettere la realtà al centro del progetto europeo, non abbandonarlo.

Una spinta ben precisa

Dietro la Strategia LGBTIQ+ non c’è un’entità astratta chiamata “Europa”, ma una rete politica precisa. Il principale motore è l’Intergruppo LGBTIQ+ del Parlamento europeo, che riunisce deputati di S&D, Verdi, Renew e The Left, tra cui diversi italiani come Benifei, Zan, Corrado, Tinagli, Strada e Morace, quest’ultima vicepresidente del gruppo. È qui che nascono le proposte e le campagne che alimentano l’agenda della Commissione. Sul piano tecnico agisce la Direzione generale Giustizia (DG JUST), che coordina l’attuazione della strategia tramite un sottogruppo di esperti nominati dai governi. Per l’Italia il riferimento è l’UNAR, l’Ufficio per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. Attorno a queste strutture si muove una fitta rete di ONG e associazioni europee, fra cui ILGA-Europe, che funge da piattaforma di lobbying e formazione, e realtà italiane come Rete Lenford, Arcigay e Famiglie Arcobaleno, spesso beneficiarie dei fondi del programma CERV. È questo intreccio di attori politici, amministrativi e associativi a costituire il vero motore delle politiche “valoriali” di Bruxelles. L’Italia, più cauta su questi temi, non figura tra i promotori politici ma partecipa ai tavoli tecnici, segno di un’integrazione che procede per reti e convergenze ideologiche più che per scelte democratiche esplicite. In questo senso, la responsabilità politica non si esaurisce a Bruxelles: passa anche attraverso i tavoli tecnici nazionali, dove funzionari e rappresentanti dei governi contribuiscono, spesso lontano dai riflettori, a definire l’orientamento delle politiche europee. La strategia LGBTIQ+ è quindi il prodotto di un intreccio multilivello in cui anche le capitali, per azione o per inerzia, partecipano alla costruzione dell’Unione morale che oggi si pretende neutra.

Un progetto incompiuto chiamato Europa

La Strategia LGBTIQ+ 2026-2030 non è dunque un “incidente di percorso”, ma il riflesso di una direzione politica precisa: un’Unione che, di fronte alle sfide del terzo millennio, preferisce agire sul terreno della morale sotto la spinta di minoranze “attivissime”. Inutile aggiungere, infine, che interventi come questo tendono a monopolizzare l’immaginario politico europeo, cavalcati da un “euroscetticismo” non meno irrealistico della teoria di genere: così o per accondiscendenza o per critica viscerale, la politica sui diritti diventa dibattito dominante, oscurando le altre priorità sui cui l’UE nonostante tutto prova, lentamente, a muoversi. Finché Bruxelles continuerà a concepire la propria missione come una pedagogia dei comportamenti anziché come una strategia per la sopravvivenza del continente, l’Europa rimarrà un progetto incompiuto: capace di regolare tutto, ma di non incidere nulla nella storia.

Sergio Filacchioni

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