Home » “Maranza di tutto il mondo unitevi!”: l’utopia tossica che piace alla sinistra radicale

“Maranza di tutto il mondo unitevi!”: l’utopia tossica che piace alla sinistra radicale

by Sergio Filacchioni
0 commento
maranza

Roma, 26 ago – Milano ha da poco imparato quanto sia breve la distanza tra un quartiere e una banlieue. La morte di Ramy Elgaml e le proteste che hanno infiammato Corvetto a novembre scorso non sono un episodio isolato: sono il segno di una faglia che attraversa l’Europa, una frattura sociale pronta a trasformarsi in progetto politico. È in questo clima che circola, con un tempismo perfetto, il volume Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie di Houria Bouteldja (DeriveApprodi, 2024), traduzione dell’originale francese Beaufs et barbares. Le pari du nous (La Fabrique, 2023). La stessa autrice è già nota in Italia per I bianchi, gli ebrei e noi (Sensibili alle Foglie, 2017). Il quadro editoriale è chiaro; l’operazione, meno innocua di quanto sembri.

I Maranza e i barbari delle periferie

Bouteldja si presenta come teorica militante di un antirazzismo “politico” che rimette al centro la razza come chiave esplicativa del capitalismo contemporaneo. Per lei lo Stato francese – e per estensione l’Occidente – non è semplicemente un ordinamento politico: è una macchina razziale nata dal colonialismo, che riproduce gerarchie e violenze sotto la maschera dei diritti. Da qui la proposta: fondere classe e razza in un nuovo soggetto storico formato da due componenti, i beaufs, cioè il sottoproletariato bianco abbandonato da una sinistra divenuta ceto medio moralista, e i barbares, gli eredi del colonialismo nelle periferie, dai maghrebini agli afro-francesi. L’obiettivo dichiarato è un’“alleanza dei barbari” capace di rovesciare l’ordine dominante. Non è una lettura incidentale del libro: è il suo cuore programmatico, ribadito anche nelle recensioni militanti che lo hanno accompagnato. L’architettura teorica è costruita senz’altro per sedurre: cita Marx e Gramsci, arruola Aimé Césaire e C.L.R. James, rilegge Brecht e, tramite Badiou, prova a trasformare il Milite Ignoto in un’icona universale di sofferenza senza patria, un “operaio ignoto” da offrire alle moltitudini delle periferie. Il passaggio è cruciale, perché lì si vede la funzione reale dell’operazione: dissolvere l’identità storica europea, privare i simboli della loro radice comunitaria, sostituire i popoli con un noi astratto, al tempo stesso vittimista e salvifico. Non è un caso che il libro arrivi in Italia nel momento in cui persino i giornali mainstream inizia a parlare apertamente di “rabbia dei maranza”: la teoria cerca di fare da cornice narrativa alle notti di Champions League trasformate in saccheggi, legittimandole non come teppismo ma come anticamera della “liberazione”.

Niente di più lontano da una reale fraternità

Eppure, nel passaggio dalla carta alla strada, l’incantesimo si rompe. La promessa di una convergenza tra “bifolchi bianchi” e “barbari” delle periferie vive di astrazioni. In concreto, quel noi è una richiesta unilaterale: agli europei si chiede di rinunciare alla propria continuità storica, di trattare i propri lutti come superstizioni nazionaliste, di considerare la propria appartenenza un ostacolo morale. L’“alleanza” è disegnata come un tribunale: da un lato gli imputati permanenti (i “bianchi”, in quanto tali), dall’altro i testimoni prediletti del mondo offeso. È difficile immaginare qualcosa di più lontano da una reale “fraternità politica”. Dove si predica universalismo, l’operazione produce più che altro tribalismo; dove invoca liberazione, genera polveriere governate da identità antagoniste. Che cosa è dunque Maranza di tutto il mondo, unitevi! nel momento in cui esce dal circuito degli studi decoloniali e arriva nelle città europee? Non un saggio “scomodo” da dibattito accademico, ma un manuale d’uso delle periferie: fornisce un dizionario, un pantheon di simboli, un’allineatura morale in cui la violenza urbana è riletta come gesto emancipativo e la memoria europea è degradata a superstizione reazionaria. Serve – per dirla senza giri di parole – a trasformare la rabbia sociale in merce politica. Non è un complotto: è una grammatica, ed è potente proprio perché risuona con un paesaggio metropolitano fatto di sradicamento, lavoro precario, famiglie spezzate, consumismo esasperato.

Bianchi contro non-bianchi

C’è poi un secondo punto, spesso rimosso. Il mondo di Bouteldja non oppone “popoli” a “élite”, ma “bianchi” a “non-bianchi”. L’orizzonte non è un’Europa plurale che ritrova se stessa a contatto con altre civiltà; è un’Europa chiamata a farsi processare. In questo schema, anche la figura del maranza – il ragazzo iper-consumista, visibilmente sfrontato – non è un individuo: è un significante politico, una leva con cui scardinare il centro europeo. Paradossalmente, così facendo si rimuove proprio ciò che si dice di voler salvare, la dignità concreta degli ultimi: il maranza non è più una persona con responsabilità e legami, ma una maschera su cui proiettare il risentimento. Qui entra in gioco l’episodio milanese. Le cronache hanno raccontato la sequenza di quella notte di fine novembre, la morte di Ramy, gli scontri, i cortei, i feriti, gli indagati, gli slogan. Si è detto tutto e il contrario di tutto, e la giustizia farà il suo corso. Ma, al di là delle responsabilità penali, resta il fatto politico: la scintilla ha acceso una messa in scena. Non una comunità che protegge i propri figli, ma un teatro di inimicizie permanenti in cui ogni gesto diventa carburante per l’odio spettacolarizzato dai social. È proprio per questi momenti che la teoria di Bouteldja è stata pensata: per fornire la cornice narrativa entro cui interpretare qualunque crepa come atto rivoluzionario e qualunque risposta delle istituzioni come “prova” del carattere razziale dello Stato.

Il fascino del maranza e la destra sovranista

C’è infine una trappola che riguarda anche una parte della destra anti-occidentale. L’idea di una “alleanza con il Sud globale” contro il liberalismo americano può, a un primo sguardo, sembrare una cugina della critica sovranista all’Imperialismo. Ma qui la convergenza è solo apparente. L’orizzonte di Maranza non è un concerto di civiltà che rivendicano il proprio destino: è la sostituzione dell’Europa con un “noi” anonimo, meticcio, moralmente colpevole, in cui i popoli europei smettono di esistere come soggetti storici. Non è un’alternativa al mondialismo: è la sua variante in negativo, ugualmente omologante. Da un lato il mercato unico e i diritti universali come lingua di legittimazione; dall’altro il conflitto razziale permanente come scena politica. Il risultato, in entrambi i casi, è la cancellazione dell’Europa come civiltà distinta. Si dirà: ma almeno questa teoria parla dei “dimenticati”, dei sottoproletari di ogni colore. Vero, ma solo per incasellarli in un racconto che ha bisogno di loro come carburante drammatico, non come comunità da ricomporre. Dove l’Europa ha costruito – anche tra errori e tragedie – istituzioni, sindacati, corpi intermedi, famiglie e municipalità, Maranza offre una scena di guerra civile a bassa intensità. Dove servirebbero politiche di ordine, lavoro, casa, scuola, autorità – cioè le condizioni minime della cittadinanza – propone la definitiva estetizzazione della marginalità. Alla domanda sociale risponde con un’estetica del conflitto glamour, alla domanda di giustizia con un rito di colpa collettiva, alla domanda di appartenenza con un noi senza memoria. Ed è qui che cade l’illusione di una possibile convergenza in funzione “anti-occidentale“: accettare la categoria di “bianchi” contro “non-bianchi” (o addirittura quella di “tutti contro gli europei“) significa già aver perso, perché vuol dire giocare sul terreno dell’avversario. Chi si lascia sedurre da questo schema non si oppone al sistema: ne diventa parte integrante, con un ruolo secondario e subalterno.

Non basta la rabbia per fare una rivoluzione

Ecco allora il punto decisivo: l’Europa reale non può essere il fantasma morale della narrazione decoloniale, è una trama viva di popoli, storie, città, antenati. Il Milite Ignoto non è un oggetto da laboratorio, è la cifra della nostra continuità: dice che esistono comunità per cui val la pena di vivere e – quando necessario – di morire. Trasformarlo in “operaio ignoto” significa amputare il passato per neutralizzare il futuro. Chi liquida tutto questo come “nazionalismo” non ha capito che, sotto la cenere, è rimasto un fuoco veramente “tribale” e nativo: il desiderio concreto di sicurezza, di giustizia, di legami, di bellezza, di autorità legittima dell’homo europaeus. Un ordine politico non nasce dall’odio, ma da una forma: da progetti, confini, leggi, sacrifici, opere. Ed è qui che la teoria di Houria Bouteldja mostra tutta la sua inconsistenza. Non basta proclamare la rabbia, non basta inventarsi un “noi” indefinito per credere di aver aperto la strada alla rivoluzione. Come ricordava già Lewis A. Coser nel 1956, bisogna distinguere tra atteggiamenti ostili e conflitti reali. I primi restano predisposizioni, stati emotivi, posture ideologiche. I secondi sono interazioni sociali concrete, dotate di strutture, di legittimità e di gerarchie. La rivolta episodica dei maranza non diventa conflitto politico, perché non genera né istituzioni alternative né percorsi di crescita comunitaria. È rumore privo di forma, e come tale destinato a essere assorbito dal sistema che dice di combattere. Per questi motivi, Maranza di tutto il mondo, unitevi! non è un libro scomodo: è un libro utile a chi vuole gestire le periferie come colonie interiori. Serve a trasformare la sofferenza in simbolo, il simbolo in rancore e il rancore in potere. È perfetto per una società che, non sapendo più parlare di patria, di autorità e di destino, preferisce produrre minoranze infinite e conflitti gestibili.

Il conflitto è una nozione troppo seria

Si tratta di un punto decisivo. L’adesione a un’idea non si ferma al semplice “credere”: deve passare per il comportarsi e infine per il diventare, secondo quella sequenza che nel linguaggio della scienza delle religioni si riassume nelle tre B: Believe, Behave, Become (il fascismo storico aveva compreso questa dinamica con il suo “Credere. Obbedire. Combattere”). Bouteldja invece resta ferma al primo gradino: un manifesto post-identitario privo di incarnazione, incapace di trasformare la marginalità in comunità. I maranza non diventano popolo: restano massa anonima. Insomma, non basta porre in questione lo status quo, bisogna proporre un’alternativa credibile. Ogni fallimento, ogni illusione svanita, rafforza il nemico. Invece di costruire una “struttura di opportunità”, capace di attrarre, formare ed elevare i suoi membri, la teoria di Bouteldja si limita a sacralizzare il rancore. Ma un gruppo che voglia davvero trasformare la società deve offrire tappe di crescita, dalla semplice aggregazione alla formazione, fino al riconoscimento di ruoli, status, obiettivi raggiunti. Deve diventare spazio di possibilità, altrimenti non è nulla. Qui si inserisce anche la questione organizzativa. Una comunità politica non vive senza una forma: può essere centralizzata come una Chiesa o coesa come una setta, ma deve possedere un’identità chiara e una causa sacralizzata. Dire “noi barbari” non basta, se quel “noi” non ha confini, non ha gerarchie, non ha destino. L’alternativa non si afferma come negazione sterile, ma come sistema compiuto, con la stessa validità strutturale di quello che intende sostituire.

I maranza non sono i nuovi barbari

La modernità ci ha abituati a pensare allo Stato come eterno, immutabile, immortale. Ma se c’è una cosa che la storia ci insegna è che: in primis, le tensioni compresse prima o poi esplodono; in secundis, ogni ordine politico è reversibile, fondato su rapporti umani e dunque fragile. Fingere che le istituzioni esistenti siano eterne – come spesso ci si riduce a credere in campo conservatore – è un’illusione: esse sono stratificazioni normative che coprono il conflitto originario. La differenza la fa chi riesce a organizzare quel conflitto in forma politica, a trasformare la tensione in destino. Per questo l’operazione di Bouteldja non è rivoluzionaria: è funzionale al sistema. Il suo barbaro meticcio non minaccia lo Stato “liberale” ma lo rafforza, trasformando il conflitto in spettacolo e la periferia in colonia interna controllabile. L’unica alternativa reale passa invece dalla capacità di costruire istituti comunitari che sacralizzino un’identità, che offrano percorsi, che trasformino atteggiamenti in azione, che riconvertano la delegittimazione delle istituzioni in nuove forme di appartenenza. Ridare nome ai luoghi, responsabilità alle persone, confini alla città, continuità alla memoria, orgoglio ai popoli. Chi invoca i maranza come soggetto politico trasversale si limita a prendere atto della terzo mondizzazione delle nostre città. In effetti, la vera domanda “scandalosa” dovrebbe essere: perchè proletariato e maranza sono sempre più assimilabili? In ogni caso, chi lavora per una comunità alternativa sa che il fuoco va custodito, ordinato, trasformato in fiamma che illumina e non in incendio che divora. L’Europa non ha bisogno dei viziati maranza di Bouteldja, ma al massimo del “barbarico splendore” di popoli che sanno tornare protagonisti del proprio destino.

Sergio Filacchioni

Migliori casinò online
Migliori casinò online

You may also like

Commenta

Redazione

Chi Siamo

Il Primato Nazionale plurisettimanale online indipendente;

Newsletter

Iscriviti alla newsletter



© Copyright 2023 Il Primato Nazionale – Tutti i diritti riservati