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Milano e il corteo-funerale del Leoncavallo: ma la credibilità era già sepolta

by La Redazione
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Leoncavallo

Roma, 7 sett – A sentirli parlare, sembra di essere davanti a un popolo in rivolta. Ventimila in corteo, striscioni, slogan, vip e politici in passerella. Tutti a gridare “giù le mani dal Leoncavallo”, come se il centro sociale fosse stato stroncato da una repressione autoritaria. La realtà, però, è che il “Leonka” non è stato sgomberato: è stato accompagnato con cura a una nuova sede, cucita su misura dalla giunta Sala, con un bando che equivale a una sanatoria mascherata. Altro che repressione: un trasloco con tanto di tappeto rosso.

Milano ha seppellito il Leoncavallo sotto un cumulo di stronzate

Gli stessi che per trent’anni hanno occupato abusivamente un immobile, accumulando milioni di euro di debiti, oggi scendono in piazza non per difendere il loro spazio – quello lo hanno già perso senza muovere un dito – ma per celebrare la liturgia dell’antifascismo militante. Non c’è stato alcun muro umano, nessuna resistenza, nessuna difesa concreta. Lo “sgombero” del 21 agosto è filato via liscio, proprio perché dietro le quinte era già pronta la soluzione alternativa. Adesso, con il piatto servito dal Comune, ci si concede il lusso di fare la manifestazione simbolica, a uso e consumo di telecamere e talk show. In piazza non potevano mancare i soliti noti. Nicola Fratoianni, il Pd milanese, l’Anpi. Poi gli attori Paolo Rossi, Claudio Bisio, Bebo Storti, Salvatores e compagnia bella. Una parata di solidarietà pelosa, un red carpet dell’antagonismo da salotto. Tutti insieme appassionatamente a piangere un centro sociale che non è mai stato sgomberato davvero, che non è mai stato difeso fisicamente, che non ha portato condanne per nessuno. Ma che è stato semplicemente trasferito e regolarizzato a spese dei contribuenti.

Sala e la misura dell’infamità politica

A margine del corteo, un gruppetto di antagonisti ha lanciato uova e petardi contro la polizia, giusto per garantire un po’ di folklore mediatico. Una scenetta patetica che conferma come questo attivismo si sia trasformato in una valvola di sfogo per poveri stupidi. Perché in fondo, la morale della favola è che il Leoncavallo continuerà a esistere, con una sede nuova, un contratto di 90 anni e la possibilità di svolgere perfino attività lucrative. In mezzo a questa messinscena si staglia la figura suprema del sindaco Giuseppe Sala. Intervistato alla festa del Pd, ha definito lo sgombero del Leoncavallo “una pagina bruttissima” e ha ribadito la necessità di trovare subito una nuova casa per il centro sociale, che “non può morire”. Poco dopo, però, lo stesso Sala ha aggiunto di sperare nello sgombero immediato di CasaPound, con la solita distinzione cretina: Leoncavallo “storico e politico”, CasaPound “brutto e fascista”. La misura della credibilità è tutta qui: un sindaco che flirta con i centri sociali, regala loro sedi e concessioni, ma poi straparla di abbattere con la forza l’unica occupazione di destra in Italia. In tutto questo, gli attivisti radicali al grido “giù le mani della città”, invece di assalire il sindaco che ha regalato Milano ai palazzinari tirano petardi contro l’asfalto.

I “ribelli” che ottengono sempre la manina

Le manifestazioni di Milano non hanno difeso nulla, perché nulla c’era da difendere: la credibilità dell’antifascismo milanese era già sepolto. Il Leoncavallo ha ottenuto in silenzio quello che voleva: una nuova sede, concessioni agevolate, e soprattutto il riconoscimento politico di essere un “valore storico”. Il corteo serve solo a riscaldare la retorica antifascista, a fingere una battaglia inesistente e a legittimare un potere che sa essere forte solo con chi non è allineato. Altro che resistenza: quella andata in scena a Milano è stata l’ennesima rappresentazione di un mondo che recita la parte dei ribelli mentre riceve dallo Stato esattamente quello che chiede.

Vincenzo Monti

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