
La storia di Alstom è, da parte sua, storia di politica industriale applicata. Soprattutto in tempi recenti, quando in barba ai principi acriticamente perseguiti in sede Ue l’esecutivo di Parigi si è messo di traverso alla ventilata cessione del ramo energia dell’azienda alla tedesca General Electric. La cessione venne poi conclusa, ma allo stesso tempo lo Stato francese entrò nel capitale della società con il 20%, quota di maggioranza relativa. Una presenza ingombrante, si direbbe, ma essenziale per orientare le scelte di gestione. A due anni da quel giorno, la scelta sembra poter cominciare a dare i suoi frutti. Alstom ha infatti annunciato la chiusura di un sito – quello di Belfort, città della Borgogna – nel quale si producono locomotive merci e automotrici Tgv. L’ultima commessa è destinata ad esaurirsi nel 2018, da cui la decisione di sospendere i lavori nella fabbrica. Sebbene questa rappresenti solo una piccola frazione dell’intera galassia aziendale, il governo non ci sta e annuncia che lo stabilimento non chiuderà. Come? Attraverso altre controllate pubbliche – principalmente Sncf, le ferrovie francesi, e la Ratp che gestisce i trasporti nella capitale – si promettono commesse per mantenere un portafoglio ordini sufficiente a garantire l’operatività del sito.
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“Per raggiungere l’obiettivo lavoreremo con i rappresentanti politici, con le organizzazioni sindacali, con la direzione di Alstom e con tutti coloro che essendo in grado di effettuare ordini in Francia possono permetterci di salvare le attività ferroviarie a Belfort“, ha chiarito il ministro dell’economia, Michel Sapin. Parole che, in tempi di libera concorrenza euroimposta, suonano quasi strane. E’ vero che in Francia siamo a ridotto delle elezioni, ma le espressioni usate dal titolare delle finanze di Parigi hanno un preciso nome: scelta di politica industriale. Perché lo stabilimento di Belfort non è una realtà decotta ed improduttiva, semplicemente soffre la crisi degli investimenti nel settore. E quindi, da manuale, interviene lo Stato non a tenerlo artificialmente in vita con l’accanimento terapeutico, bensì facendo circolare risorse prodotte in patria all’interno dei propri confini, secondo uno schema di circolo potenzialmente virtuoso. Il problema non è la Francia che attua queste scelte. Il problema siamo noi, ormai del tutto incapaci di farlo.
Filippo Burla