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Come rompere davvero con gli USA e l’ordine del ’45: l’Europa davanti allo shock della responsabilità

by Sergio Filacchioni
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Europa

Roma, 10 dic – Ogni volta che si prova a parlare seriamente di Europa, la discussione deraglia nello stesso vicolo cieco: la contrapposizione meccanica tra “Europa” e “UE”. È un riflesso pavloviano che, invece di aprire possibilità politiche, congela il dibattito in una sterile diatriba nominalistica. Chi parla di autonomia continentale si sente subito rispondere che l’Unione è un progetto tecnocratico e antieuropeo, che bisogna scegliere: o Europa o UE, perché le due cose sarebbero incompatibili.

L’Europa, struttura e sovrastruttura

Questa obiezione ha un punto debole evidente: confonde ciò che è struttura con ciò che è sovrastruttura, per usare la vecchia distinzione marxiana che qualcuno cita senza averla mai compresa davvero. La struttura è la realtà profonda del continente: la sua storia, i suoi popoli, la sua cultura giuridica, il suo sedimento antropologico. È ciò che precede qualunque istituzione e che continuerà a esistere indipendentemente dalle forme politiche che l’Europa si dà nel tempo. La sovrastruttura, invece, è l’assetto istituzionale momentaneo: oggi l’UE, ieri la Comunità Economica, domani qualcosa di diverso. Mescolare i due livelli significa cadere in un equivoco: chi, nel 1860, pensava che l’Italia si identificasse integralmente con il Regno di Sardegna? Nessuno, ieri, avrebbe detto che ritrovarsi sotto un sovrano piemontese fosse l’essenza della nazione italiana (sicuramente non l’avrebbero detto i repubblicani). Allo stesso modo, confondere l’Europa con i limiti contingenti dell’UE non è un atto di lucidità critica, ma di miopia politica. L’Europa è la nostra materia prima: una civiltà, un destino, un blocco storico. L’UE è un tentativo, imperfetto e incompiuto, di tradurre questa realtà in un soggetto politico. Criticabile? Sì. Superabile? Certamente. Ma non per questo va trattata come un corpo estraneo alla nostra storia.

L’Unione Europea non è l’origine di tutti i mali

Il vero punto cieco della critica “Europa non UE” è un altro: si accanisce sulla sovrastruttura per non guardare in faccia la struttura reale che ci tiene vincolati, cioè l’ordine strategico costruito dagli Stati Uniti dal 1945. È lì che va cercata la radice della mancanza di sovranità europea, non nei palazzi di Bruxelles. Perchè l’ordine del ’45 non è solo un’alleanza militare (NATO): è un ecosistema politico, culturale, economico e perfino antropologico costruito attorno al primato statunitense e alla marginalità strutturale del continente europeo. L’UE non ne è l’alternativa, e non è mai riuscito ad esserlo: ne è stata, nella migliore delle ipotesi, un amplificatore, e nella peggiore un amministratore delegato. Questo significa che attaccare l’Unione Europea come se fosse l’origine di ogni problema non è un atto rivoluzionario ma un diversivo massimalista. È prendere a pugni la porta sbagliata mentre il vero centro di gravità sta altrove. La dipendenza strutturale dell’Europa dagli Stati Uniti, che ha garantito stabilità ma paralizzato qualunque tentativo di autonomia, è il vero nodo irrisolto.

Il disimpegno di Washington è uno shock salutare

Ma oggi, paradossalmente, è proprio Washington a mostrare intenzioni di disimpegno. Con la nuova Strategia per la sicurezza nazionale, Washington vede l’Europa come ciò che è effettivamente diventata: un continente demograficamente fragile, economicamente rallentato e culturalmente indeciso. Un vero e proprio shock che divide l’establishment europeo: chi si fa scudo delle debolezze che hanno portato l’UE nell’irrilevanza (“siamo la civiltà del diritto e della democrazia”), e chi coglie la palla al balzo per dire basta con l’UE (“torniamo alle sovranità nazionali”). Due risposte, entrambe infantili, che schivano accuratamente la vera presa di coscienza necessaria: lo sganciamento americano è un’occasione storica. Perchè, in fondo, rompere con l’”ordine del ’45″ non significa solo rompere con gli Stati Uniti, ma smettere di vivere dentro un dispositivo che ha reso l’Europa un continente di protettorati. Significa riconoscere che l’alleanza transatlantica è stata, e può continuare ad essere, utile o necessaria, ma che non può assorbire interamente la nostra definizione di sicurezza, economia e identità. E proprio questo terrorizza chi ha interiorizzato l’idea che ogni assunzione di responsabilità sia pericolosa.

Non c’è sovranità senza mezzi

Uscire da questo schema richiede tre passaggi che nessun governo nazionale ha mai avuto il coraggio di formulare. Il primo è intellettuale: recuperare la percezione dell’Europa come civiltà e non come “spazio regolatorio”. Senza una coscienza storica, la politica si riduce a tecnicismo. Il secondo è politico: costruire un nucleo europeo che abbia legittimità, classe dirigente, continuità strategica e comando. Non un ritorno nostalgico agli Stati ottocenteschi, ma una federazione che mantenga l’equilibrio tra competenze nazionali e una struttura continentale capace di esprimere volontà. Il terzo è materiale: industria degli armamenti, infrastrutture energetiche e digitali, autonomia tecnologica, difesa comune, controllo dei confini. E qui rompiamo un altro tabù: non c’è sovranità senza mezzi. Non basta più dire “fuori dalla NATO“. Rompere l’”ordine del ’45” significa accettare che l’Europa, se vuole esistere, deve pagare costi che nessuno ha mai messo sul tavolo: costi economici, demografici, militari. Significa rinunciare alle rendite assistenziali, significa rompere il primato dell’economia sulla politica, significa riprendere il rischio della storia. È un compito enorme, ma non impossibile.

Costruzione graduale di un potere continentale

Insomma, se l’Europa vuole finalmente emanciparsi dal dispositivo strategico costruito dagli Stati Uniti nel 1945, la strada non passa né per l’antiamericanismo rituale né per la fuga massimalista dalla realtà (la stessa che Benito Mussolini rifiutò quando uscì dal Partito Socialista Italiano, il 24 novembre 1914). Passa, molto brutalmente, per la costruzione graduale ma decisa di un potere continentale. E questo significa dotarsi non solo di un orizzonte politico rivoluzionario, ma anche di una serie di strumenti concreti: una difesa comune che la svincoli dalla dipendenza esterna, un apparato tecnologico ed energetico integrato e un sistema istituzionale capace di decisione politica reale. Ciò implica un Parlamento europeo con poteri effettivi, una Commissione dotata di guida riconosciuta e una BCE orientata allo sviluppo del continente. A livello economico, serve rafforzare la partecipazione dei lavoratori per contrastare la concentrazione capitalistica del potere, mentre sul piano esterno l’Europa deve tornare a costruire presenza nel Mediterraneo e in Africa. Tutto questo richiede una nuova cultura politica, formata da una scuola europea che crei cittadini consapevoli e classi dirigenti all’altezza. Solo così l’UE può cessare di essere un’amministrazione e diventare una potenza.

Come i repubblicani ma per l’Europa

In fondo, il compito che ci attende non è molto diverso da quello che toccò ai repubblicani italiani dopo l’Unità: non volevano la monarchia sabauda, ne vedevano limiti e contraddizioni, ma non per questo ripudiarono l’Italia appena nata. Accettarono la realtà storica senza rassegnarsi alla sua forma provvisoria, e scelsero la strada più difficile: trasformare lo Stato senza infrangere la Nazione. È lo stesso spirito che oggi serve all’Europa. L’UE non è la “nostra Europa”, ma è lo spazio dentro cui l’Europa può diventare finalmente se stessa: costruire potenza, assumersi costi, uscire dalla comodità del protettorato e prendere in mano gli strumenti che contano davvero — difesa, tecnologia, energia, istituzioni capaci di decidere, partecipazione economica, formazione delle élite. L’Europa smetterà di essere un problema il giorno in cui rinuncerà a vivere della propria storia passata e comincerà a produrne una nuova: quella di un continente che, per la prima volta dopo millenni, agisce come un’unica volontà.

Sergio Filacchioni

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