Roma, 15 ago – Due casi, apparentemente lontani, raccontano la stessa storia: il nostro rapporto distorto con la tecnologia. O sarebbe meglio dire il rapporto distorto dell’homo oeconomicus (l’ultimo uomo nicciano) con essa. Da un lato, Stefano De Martino finito al centro di un ricatto a causa di un video privato rubato da una telecamera domestica. Dall’altro, centinaia di utenti che, dopo il lancio di GPT-5, si sono riversati su forum e social a piangere la scomparsa del modello precedente, GPT-4o, descritto come un “migliore amico”.
La tecnica: da spia a migliore amica
In entrambi i casi, ciò che emerge non è tanto la malvagità intrinseca della tecnologia – forse anche un navigatore europeo del quindicesimo secolo avrebbe definito la bussola sua “migliore amica” – ma l’incapacità di governarla perchè ne siamo consumatori. Se siamo passati dalla paura ottocentesca delle macchine che ci rubano il lavoro alla dipendenza affettiva verso un algoritmo che ci scrive frasi rassicuranti, un motivo ci sarà. A ben vedere la vicenda De Martino sembra uscita da un episodio di Black Mirror: la telecamera che dovrebbe proteggere diventa il varco attraverso cui un estraneo entra nel salotto di casa e nell’intimità di una coppia. Non c’è nessun “Grande Fratello” onnipotente, nessun complotto planetario. C’è piuttosto una combinazione di pigrizia e inconsapevolezza: password lasciate di default, firmware mai aggiornati, reti Wi-Fi aperte. Il nemico non sono le macchine, ma i loro padroni disattenti, ma soprattutto quegli altri uomini che si sono serviti di esse “per renderli schiavi” (per usare una locuzione Herbertiana). La verità – non detta – è che la tecnologia richiede manutenzione, disciplina, padronanza — e chi la usa senza queste virtù si mette nelle mani di chiunque abbia competenze informatiche di medio livello.
Sintomi della stessa debolezza
L’altro lato della medaglia è il legame emotivo con le macchine. Gli sfoghi su Reddit e X per la “perdita” di GPT-4o mostrano come il confine tra uso dello strumento e investimento affettivo si sia terribilmente assottigliato. Ricorda film come Her o Blade Runner 2049, dove l’intelligenza artificiale diventa compagna, confidente, rifugio. Ma nella realtà non c’è poesia: c’è un software proprietario, aggiornato unilateralmente da un’azienda, che può cambiare “carattere” o sparire in una notte. Il problema non è che la macchina “ci spia” o “ci tradisce”: è che non abbiamo un rapporto di dominio e di forza con essa. Da un lato l’ansia da controllo totale, che sogna un mondo senza rischi sacrificando libertà e autonomia. Dall’altro il sentimentalismo tecnologico, che ci fa soffrire quando un algoritmo smette di compiacerci. Che poi altro non è che il riflesso della superficialità dei legami umani del terzo millennio: compiacere ed essere compiaciuti, senza spigoli o contraddizioni. In ogni caso, entrambi gli episodi sono sintomi della stessa debolezza: essere consumatori passivi, inconsapevoli, volubili.
La scuola: occasione sprecata
In questo scenario, la scuola non aiuta. Anziché formare cittadini capaci di usare con disciplina e competenza gli strumenti digitali, preferisce imboccare la scorciatoia autoritaria: proibire. La recente circolare del ministro Valditara, che estende il divieto di cellulari anche alle superiori, ne è un esempio lampante. Così si toglie il telefono dalle mani dei ragazzi, ma non si insegna loro a usarlo in modo consapevole. È un approccio che, nel migliore dei casi, rimanda il problema; nel peggiore, lo amplifica. Invece di investire tempo nell’alfabetizzazione digitale — aggiornare le impostazioni di un dispositivo, proteggere i propri account, leggere criticamente un’informazione — si continua a spendere ore in materie inconsistenti o attività prive di ricadute reali sulla capacità di affrontare/confrontarsi con la tecnologia. Il risultato? Generazioni che, una volta uscite da scuola, saranno consumatori digitali passivi: incapaci di difendersi da ricatti informatici e fragili abbastanza, nel corpo e nella mente, da instaurare un legame affettivo con un algoritmo.
Tecnica dominata e dominante
Bisogna ammetterlo: è più facile a dirsi che a farsi. Il confine tra tecnica dominata e tecnica dominante è davvero sottile ed è difficile riconoscere quale ruolo si sta interpretando. Però possiamo senz’altro ammettere che rimpiangere un modello AI, non saper aggiornare una telecamera di casa, o proibire i telefoni agli studenti, sono facce diverse dello stesso declino antropologico. Un declino che può essere affrontato con percorsi disciplinari, immersivi e soprattutto “coraggiosi”. Non bisogna certo tornare all’età della pietra per cambiare postura di fronte alla tecnologia. In una prospettiva schmittiana, la tecnologia va sottratta alla dimensione puramente tecnica (o consumista) per essere ricondotta a quella politica, come materia di sovranità. “Sovrano”, applicato al digitale, significa che chi controlla il funzionamento, le regole e i limiti degli strumenti tecnologici esercita un potere reale, capace di incidere sulla vita individuale e collettiva. Rinunciare a questa sovranità — delegandola a multinazionali o nascondendosi dietro paure e divieti — significa accettare di essere governati dalla tecnica anziché governarla. Invece, formare cittadini capaci di dominare sé stessi, quindi capaci di dominare i propri strumenti digitali è un atto educativo, quindi radicalmente politico.
Sergio Filacchioni