Roma, 8 lug – Succede in Italia, oggi: una sede politica viene posta sotto sequestro dalle autorità giudiziarie non per atti violenti, non per attività clandestine, non per reati materiali, ma per le idee espresse pubblicamente, alla luce del sole. È quanto accaduto a Torino, dove la comunità militante di Avanguardia si sono visti sigillare il proprio spazio di Via Tibone con accuse che rientrano nell’ormai vaghissimo spettro di “propaganda e istigazione all’odio”.
Avanguardia Torino colpita da una misura senza precedenti
Basta leggere i dettagli dell’indagine riportati dai media ufficiali per rendersi conto della portata reale di questa operazione. Si citano commemorazioni dedicate a Sergio Ramelli, Francesco Cecchin, Acca Larentia. Si segnalano “striscioni contro la sostituzione etnica”, critiche all’islamizzazione delle città, prese di posizione polemiche nei confronti dello storico Eric Gobetti per la sua rilettura riduzionista delle Foibe. In altre parole: normale attività militante, svolta in modo visibile, documentabile, e perfettamente legittima. Una narrazione mediatica che ammette implicitamente che ricordare i propri morti è diventato un atto criminale: dai DASPO per il 7 gennaio ai processi per le commemorazioni di Milano, è sempre più conclamata la volontà politica di marginalizzare e criminalizzare la memoria storica e militante della destra radicale. Ma da quando manifestare dissenso verso un’ideologia o una narrazione storiografica è diventato materia da codice penale? E soprattutto: siamo davvero di fronte a un’emergenza tale da giustificare la chiusura fisica di uno spazio politico? A giudicare da ciò che sappiamo, non ci sono precedenti simili nel nostro Paese. In Francia e in Germania, da tempo si applica una forma di censura preventiva contro i movimenti non conformi, con scioglimenti, sequestri, divieti. Ora sembra che anche in Italia si voglia percorrere la stessa strada. Una repressione che non colpisce ciò che si fa, ma ciò che si rappresenta. Che non interviene per fermare un pericolo concreto, ma per neutralizzare spazi simbolici.
L’arma del decreto sicurezza
Il “decreto sicurezza”, promosso da un governo che si dichiara identitario, rischia di diventare l’arma normativa perfetta per colpire proprio chi quell’identità la difende realmente, fuori dai palazzi, nelle piazze, nei quartieri. Misure nate — almeno sulla carta — per contrastare il degrado e l’illegalità si prestano, in assenza di un vero orientamento politico, a essere usate contro chi è semplicemente non allineato. Soprattutto se a gestirle è un apparato burocratico e giudiziario che resta culturalmente ostile a certe visioni del mondo. Il rischio concreto è che strumenti pensati per “ripristinare l’ordine” finiscano per rafforzare la repressione preventiva verso spazi militanti, sedi associative, manifestazioni storiche e simboliche. In assenza di una linea chiara su chi deve essere represso e chi soltanto contenuto, la macchina dello Stato fa autonomamente le “sue” distinzioni: colpisce ciò che è fragile – magari gruppi e comunità non riconosciute giuridicamente – e non ciò che è ingiusto. E in questo schema, il dissenso identitario — che è oggi la vera opposizione culturale — resta il bersaglio più sovraesposto, grazie alla campagna mediatica e culturale quotidiana a reti unificate sul ritorno del Fascismo.
La repressione preventiva e selettiva
È lecito chiedersi se non ci sia, dietro questo provvedimento, un messaggio più ampio. Un segnale lanciato a chiunque non rientri nei confini dell’opinione autorizzata. O forse una risposta — in chiave di bilanciamento — alle numerose inchieste che, negli ultimi anni, hanno coinvolto la galassia dell’antagonismo torinese. Una sorta di malsano “equilibrio giudiziario” che vuole prevenire, più che punire, e neutralizzare l’esistenza di spazi politici autonomi, più presenti e radicati di molti partiti tradizionali. Il sequestro della sede torinese a pochi giorni di distanza dalle condanne inflitte ai militanti di CPI – con Gianluca Iannone e Luca Marsella in testa – per lo sgombero del Circolo Futurista, confermano un trend alquanto sinistro. Secondo Europol, infatti, nel 2024 l’estrema destra ha compiuto un solo attacco e subito quasi cinquanta arresti. La sinistra radicale, oltre venti attacchi e meno della metà dei fermi. Un rapporto sproporzionato che evidenzia una repressione preventiva e selettiva, dove l’attenzione non si concentra su chi colpisce davvero, ma su chi viene percepito come simbolicamente pericoloso. In questo contesto, le sedi identitarie diventano obiettivi non per ciò che fanno, ma per ciò che significano.
Sergio Filacchioni