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Gaza, storia di una lunga guerra: la tregua sarà epilogo o preludio?

by Sergio Filacchioni
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tregua Gaza

Roma, 9 ott – Israele e Hamas hanno raggiunto un’intesa sulla prima fase del piano in 20 punti proposto da Donald Trump per Gaza, la cui firma ufficiale è prevista oggi al Cairo. L’accordo, salutato come una “svolta storica”, prevede un cessate il fuoco immediato, il rilascio di circa venti ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi e l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia, devastata da quasi un anno di guerra che ha provocato oltre 67mila vittime palestinesi.

Verso una tregua stabile a Gaza

Israele inizierà un ritiro parziale dell’esercito, mentre Hamas si impegna a fermare ogni lancio di razzi e a garantire la sicurezza dei convogli di soccorso. Questa, tuttavia, è solo la prima tappa di un percorso che, secondo le indiscrezioni, dovrebbe portare nei prossimi mesi al disarmo graduale di Hamas e alla completa uscita delle truppe israeliane. Un cammino complesso, disseminato di incognite. Restano infatti incerti i meccanismi di verifica: non è chiaro chi controllerà il disarmo, con quali strumenti e sotto quale autorità internazionale. Allo stesso modo, il calendario del ritiro israeliano non è stato reso pubblico e potrebbe variare in base all’evoluzione della sicurezza. Questo margine di ambiguità, tutt’altro che casuale, mostra come la tregua sia parte di un disegno politico più ampio, nel quale la “pace” non nasce da una reale negoziazione tra le parti, ma da un quadro di potere già tracciato dalle potenze occidentali. La governance del dopoguerra resta infatti il punto più controverso.

I nuovi amministratori non promettono bene

Il piano parla di un’amministrazione tecnica provvisoria, formata da personalità palestinesi “indipendenti”, ma supervisionata da un comitato internazionale guidato dagli Stati Uniti. In altre parole, una struttura di controllo esterna, modellata sulle esperienze di altri Paesi “pacificati” a tavolino (Baghdad, Tripoli), dove la sovranità viene sospesa in nome della stabilità. Dietro la retorica del “processo politico stabile” si profila così un commissariamento di Gaza, che rischia di trasformare la tregua in una semplice pausa amministrata, funzionale al mantenimento dell’ordine regionale e alla tutela degli interessi strategici di Washington e Tel Aviv. Dopo mesi di bombardamenti e distruzioni sistematiche, l’accordo rappresenta senza dubbio un passaggio simbolico importante. Ma la sua architettura lascia intravedere più un equilibrio imposto dall’alto che una riconciliazione dal basso. Come già osservato nel “piano Trump” e nel recente “Board of Peace” promosso da Tony Blair, il progetto americano punta a costruire una pace funzionale, garantita da attori esterni e centrata sulla sicurezza israeliana, più che sulla ricostruzione politica e civile della società palestinese.

Non sarà pace dei popoli

A Gaza, dove intere generazioni sono cresciute tra assedi e macerie, la parola “pace” rischia di suonare ancora una volta come un sinonimo di occupazione senza truppe. L’ingresso degli aiuti umanitari e la sospensione dei bombardamenti sono segnali necessari, ma non sufficienti: la vera sfida sarà capire chi controllerà il dopoguerra, chi deciderà la ricostruzione e con quali risorse. L’intesa del Cairo, dunque, non chiude la guerra: ne sposta semplicemente il terreno, dal fronte militare a quello politico e amministrativo. Sarà il tempo a dire se questo cessate il fuoco rappresenterà davvero l’inizio di un percorso stabile o l’ennesima tregua apparente destinata a crollare sotto il peso delle diffidenze e delle ambizioni regionali. Ma una cosa è certa: in Medio Oriente, la pace non si firma mai una volta per tutte — e, quando lo si fa grazie a Washington, raramente è la pace dei popoli.

Sergio Filacchioni

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