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Ucraina, crisi istituzionale e pressione occidentale: il nodo dell’anticorruzione in tempo di guerra

by Sergio Filacchioni
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Ucraina

Roma, 31 lug – In Ucraina è esplosa una crisi politica interna che potrebbe rivelarsi più pericolosa di quanto sembri. Nonostante la guerra contro la Russia continui a insanguinare il fronte orientale, con attacchi quotidiani e droni russi che colpiscono infrastrutture e civili, è la battaglia interna contro la corruzione a mettere seriamente a rischio la stabilità dello Stato.

Ucraina, il nodo anti-corruzione

Il presidente Volodymyr Zelensky ha firmato nei giorni scorsi una legge controversa che indebolisce l’indipendenza dei principali organi anticorruzione del Paese — il NABU (Ufficio Nazionale Anticorruzione) e la SAPO (Procura Specializzata Anticorruzione) — assegnando poteri rafforzati al procuratore generale, una figura fortemente legata alla presidenza. Il risultato è stato un’ondata di proteste nelle piazze di Kyiv e di altre città, una reazione che ha fatto tremare l’immagine monolitica del governo impegnato contro l’aggressione russa, ma soprattutto i rapporti con l’Occidente. Va detto senza giri di parole: in un contesto come quello ucraino, mentre l’esercito continua a combattere valorosamente sul fronte, la corruzione non è solo un problema morale, ma un vero rischio strategico. Ogni cedimento nella fiducia interna o nel supporto occidentale può diventare un vantaggio per Mosca. Ma andiamo per ordine.

Zelensky prova a centralizzare l’anti-corruzione

Il provvedimento approvato dal Parlamento e firmato da Zelensky è stato presentato come una misura per rendere più efficaci le indagini anticorruzione e “liberarle dall’influenza russa”. In realtà, secondo giuristi e osservatori internazionali, la legge concentra potere politico nelle mani del procuratore generale, figura nominata direttamente dalla presidenza, minando così la credibilità e l’autonomia delle agenzie che dovrebbero garantire la trasparenza istituzionale. La reazione è stata immediata. Migliaia di persone sono scese in strada, con slogan come “Distruggi i russi, non la democrazia”. Ma a guidare le manifestazioni non è stato un movimento popolare spontaneo o trasversale, bensì una rete di media, ONG e attivisti legati agli ambienti liberal filoamericani, in particolare quelli vicini all’ex presidente Poroshenko e alle fondazioni internazionali di area democratica statunitense (molte delle quali colpite dalla ristrutturazione dei flussi di finanziamento USA dopo il ritorno di Donald Trump). Non c’erano i nazionalisti, non c’erano soldati e veterani, non c’erano i protagonisti della rivoluzione di Maidan del 2014. Anzi, oggi molti di quei veterani guardano con scetticismo le nuove proteste, percepite non come la continuazione del sogno del 2014, ma come una sua deformazione: slogan democratici, ma appoggi esterni; richieste di trasparenza, ma portate avanti da élite scollegate dalla realtà del fronte e del popolo.

Il volto liberal delle proteste

Ukrpravda, Hromadske TV, Toronto TV, Bihus TV: sono solo alcune delle testate coinvolte nelle proteste, tutte note per il loro orientamento progressista e fortemente legate ai circuiti del soft power occidentale. Secondo testimonianze locali raccolte da Kyiv, i partecipanti sono in gran parte giovani attivisti, molti dei quali più impegnati a postare foto su Instagram che a comprendere davvero i contenuti legislativi contestati. Un ragazzo residente a Kyiv – veterano di Maidan – ci racconta che nonostante la legge sia ritenuta “pessima”, il 90% dei manifestanti non l’ha letta e non capisce di cosa si stia parlando, mentre chi combatte al fronte o ha combattuto nel 2014 guarda con certa ironia queste proteste “instagrammabili”. Risulta evidente la frattura tra l’Ucraina combattente e quella “attivista”, che oggi più che mai si rende visibile. I gruppi nazionalisti che in passato sono stati in prima linea nelle mobilitazioni contro il potere, sono rimasti in silenzio o hanno scelto di non partecipare non perché condividano il contenuto della legge, ma perché si percepisce la contaminazione liberal e filoamericana delle proteste. Quindi, il malcontento verso Zelensky esiste, ma non trova oggi un fronte unificato: il dissenso è frammentato, spesso motivato da interessi dettati da agende esterne.

Zelensky rettifica subito

Travolto dalle critiche — anche da parte dell’Unione Europea e degli ambasciatori del G7 — Zelensky ha cercato di rimediare in extremis. In una telefonata con il cancelliere tedesco Friedrich Merz, ha presentato un nuovo disegno di legge “riparatore” volto a garantire, almeno formalmente, l’indipendenza delle istituzioni anticorruzione. Berlino ha accolto positivamente l’iniziativa e ha promesso il suo sostegno alla revisione del testo. Gli ambasciatori del G7 si sono detti pronti ad aiutare. Ma resta da chiedersi: è un sincero dietrofront o una mossa tattica per contenere l’emorragia di consensi in Occidente? In un momento in cui l’Ucraina si gioca tutto sul piano internazionale — dai negoziati con l’UE alle forniture militari — la percezione esterna della governance di Kyiv è cruciale. Zelensky lo sa bene, e tenta di riaccreditarsi come difensore della democrazia. Forse è proprio questa la lezione più amara di questi anni: che una vera sovranità non si conquista solo cacciando l’invasore, ma anche affermando una direzione politica autonoma, libera tanto dal ricatto militare quanto da quello economico e ideologico. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente.

L’Ucraina non può perdere fiducia

Come abbiamo detto all’inizio, in un Paese in guerra la corruzione non è solo un problema amministrativo: è un rischio strategico. Ogni episodio di opacità politica mina la coesione nazionale e offre alla Russia un’arma propagandistica potente. Ed è proprio questo che preoccupa anche i vertici militari. Il capo dell’intelligence ucraina, Kyrylo Budanov, ha ammonito: “Una nazione perde quando si divide su sé stessa”. Un messaggio che vale più di mille comunicati ufficiali. L’Ucraina rischia oggi di combattere su due fronti: contro un nemico esterno ben armato e determinato, e contro un nemico interno che mina la sua credibilità di fronte agli alleati. Le proteste, per quanto legittime nella loro essenza, sembrano essere il riflesso di una lotta di potere tra élite, più che di un reale impulso popolare per la giustizia e la trasparenza. Zelensky è un presidente sotto pressione, sia da Mosca che da Washington, da Bruxelles e ora anche da Kyiv. Il suo tentativo di accentrare potere, forse per gestire meglio la crisi, si è rivelato un clamoroso auto sabotaggio, smascherando tensioni e nemici interni. E mentre l’Occidente applaude timidamente le promesse di riforma e Mosca sfrutta questo caos per la sua propaganda, l’Ucraina non può rischiare di perdere ciò che ha di più prezioso: l’incrollabile fiducia.

Sergio Filacchioni

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