Roma, 21 lug – Non passa giorno senza che qualche penna progressista ci propini la solita lezione di storia e di morale. L’ultimo esempio lo troviamo su Vanity Fair, dove un articolo firmato da Monica Coviello ci racconta – con tono paternalistico e prevedibile – che in Italia le zone con più “memoria partigiana” sarebbero quelle che meglio resistono all’avanzata dell’estrema destra.
Vanity Fair scopre le roccaforti rosse
Lo spunto viene da una ricerca accademica di Juan Masullo e Simone Cremaschi, che avrebbe “scoperto” un legame tra il passato partigiano di certi territori e il loro presente elettorale più “democratico”. Tradotto: dove c’è stata più Resistenza ci sarebbe oggi meno destra, meno “populismo”, meno “autoritarismo”. Un meccanismo quasi magico, come se l’antifascismo fosse un vaccino politico somministrato nei decenni, capace di immunizzare intere comunità. Peccato che questa narrativa sia, nella migliore delle ipotesi, parziale. Nella peggiore, una comoda autoassoluzione per un establishment culturale che rifiuta di fare i conti con la realtà. L’articolo di Vanity Fair infatti cita giardini della memoria, sentieri partigiani, raccolte firme “contro il fascismo”. Tutto molto bello, tutto molto retorico. Ma la domanda vera è: questi riti collettivi servono davvero a rafforzare la democrazia o piuttosto a cristallizzare un conformismo ideologico? In molte zone d’Italia – dall’Emilia “rossa” alle valli del Piemonte – l’antifascismo non è mai stato una semplice posizione politica: è stato un obbligo sociale, un’identità imposta, un marchio di appartenenza sociale. Non aderire a questa liturgia significa ancora oggi rischiare l’esclusione dalla vita pubblica locale. È il famoso “pensiero unico”, che si maschera da tolleranza ma non ammette dissenso. Eppure, a ben vedere, proprio queste zone sono spesso quelle più in difficoltà sul piano economico e demografico. La sinistra locale resiste nelle urne non per meriti politici, ma per inerzia storica, per gestione clientelare e per un radicamento culturale che assomiglia più a un monopolio che a una libera competizione di idee.
Il mito della “deriva autoritaria”
Ma la parte senz’altro più stucchevole della retorica antifascista è quella che dipinge ogni successo elettorale della destra come una minaccia alle “istituzioni democratiche”. In realtà, il voto per forze cosiddette “sovraniste” o “di destra radicale” è un normale fenomeno politico in un contesto democratico, esattamente come lo è stato il voto per il PCI o per i suoi epigoni post-comunisti per decenni. Chi oggi si scandalizza per l’avanzata di Lega, Fratelli d’Italia o di altre formazioni liberal-conservatrici, dovrebbe forse interrogarsi su cosa non funziona più nella sinistra e nelle sue élite, invece di rifugiarsi nel mantra antifascista. Ma si sa: è più comodo dare la colpa ai “barbari alle porte” che guardare in faccia il proprio fallimento. A ben vedere l’antifascismo “di memoria” ha proprio questo problema: parla sempre del passato, ma non dice nulla sul presente. La gente che vota oggi – a destra o a sinistra – lo fa perché ha problemi concreti: immigrazione fuori controllo, insicurezza, precarietà lavorativa, crisi della natalità. Davvero pensiamo che un sentiero partigiano restaurato possa risolvere queste questioni? In molte zone “resistenti”, i giovani se ne vanno, le aziende chiudono, i paesi si spopolano. Eppure si continua a organizzare commemorazioni e cortei, come se la storia fosse una coperta calda sotto cui nascondersi dal freddo della realtà. È un modo per sentirsi ancora dalla parte giusta, senza dover ammettere che il mondo è cambiato e che le categorie del Novecento non solo non bastano più a spiegarlo, ma nemmeno lo possono giustificare.
La lezione che non vogliono imparare
La verità è che non esiste un legame meccanico tra memoria partigiana e buona salute democratica. Un’eredità politica – qualsiasi essa sia – non si mantiene semplicemente nel ricordo, ma ha bisogno di essere attualizzata. Esistono invece territori con culture politiche diverse, che esprimono nel voto le loro priorità e i loro disagi. E spesso lo fanno scegliendo la destra, non perché “non ricordano abbastanza il fascismo”, ma perché non si sentono rappresentati da chi passa il tempo a distribuire patenti di civiltà dall’alto di una superiorità morale presunta. Se c’è un rischio autoritario, oggi, non viene dalla destra popolare e nemmeno da chi vorrebbe ridurre il pluralismo a un monologo antifascista. Autoritario è un capitalismo finanziario sempre più predatorio. Totalitaria è la società dei consumi. Pericolosa è la grande sostituzione dei popoli europei con masse allogene. E questo sì che dovrebbe preoccuparci.
Vincenzo Monti