
Una mistica così esplosiva e volta totalmente all’aiuto del prossimo, non poteva che affascinare Gabriele D’annunzio. Fu Arnaldo Fortini, podestà di Assisi nel 1923, autore del volume D’Annunzio e il Francescanesimo, e grande amico del Vate, a trasmettergli la passione per il santo Umbro. E lo spirito del francescanesimo è assai presente nell’anima e nella poetica di D’annunzio. Oltre alla famosa lirica La sera fiesolana, volutamente modulata dall’eroe di Fiume sul Cantico delle creature (“Laudata sii per la tua pura morte,/ o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare/ le prime stelle!”), si pensi al famoso motto d’annunziano io ho quel che ho donato, che riecheggia lo spirito francescano o, ancora, a uno dei tratti tipici di D’annunzio: la gioia di vivere.
Nel settimo capitolo della sua Regula non bullata, Francesco ammonisce i suoi frati “dal mostrarsi tristi all’esterno e oscuri in faccia”, allo stesso modo D’annunzio, tramite le beffe e le facezie, dava all’esistenza un taglio “giocoso” (“difendetevi con tutti i mezzi, e pur con le beffe se queste siano necessarie”, dice il Vate ne Le vergini delle rocce). Con le donne non disdegnava di chiamarsi frate focu, denominò Porziuncola la villa della sua compagna Eleonora Duse e utilizzò spesso il motto Pax et Bonum, Malum et Pax, ricamato in drappi ancora visibili al Vittoriale. Francesco si configura dunque come il primo santo non conforme: occupava, con i suoi fratelli, le chiese diroccate e gli edifici dismessi per poi ricostruirle, attaccava l’ozio a favore invece del lavoro, che a suo dire dava all’uomo la sua vera dimensione (lavorino con fedeltà e con devozione, così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione al quale devono servire tutte le altre cose temporali), predicava l’azione biasimando le vuote parole.
Michael Mocci