
I Greci stanno scoprendo che la crisi economica ha anche implicazioni meno “materiali”: la perdita del loro patrimonio culturale e della loro identità. Non è un caso il crescente successo di Alba Dorata.
Anche nel 1801, quando i marmi del Partenone finirono in Inghilterra, la Grecia attraversava un momento di crisi. Allora Lord Elgin, ambasciatore inglese, assunse gente del luogo per staccare le metope dal tempio e comprò alcuni pezzi più piccoli dagli abitanti locali. Il sultano non mosse un dito. Grazie a questa operazione, compiuta da “barbari, come li ha definiti Chateaubriand, i rilievi con la Titanomachia, l’Amazzonomachia, la processione delle Panatenaiche finirono prima a casa Elgin, poi, dal 1816 al British Museum. Oggi come allora, molti cercano di depredare la Grecia, qualcuno ha addirittura proposto di vendere le isole greche per ripagare parte del debito.
L’Italia rischia di imboccare la stessa strada: si già chiesto di “affittare” le nostre opere d’arte a degli sceicchi, così per tirar su qualche spiccio. Ma “il tempio è sacro perché non è in vendita”, ci insegna Pound.
Con usura non c’è arte. E mai come ora la Grecia, sotto la morsa della crisi e della finanza, per tornare allo status di cui è degna, deve riappropriarsi del Partenone, di Platone, di Kazantzakis, non per farne delle citazioni erudite ma per possederli e perpetuarli.
Michael Mocci