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ITALIA: ESISTERE O SCOMPARIRE?

by Redazione
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Le affermazioni espresse dal Ministro Lollobrigida durante il X Congresso CISAL, svoltosi a Roma nell’aprile 2023, hanno sollevato un’ondata di critiche e indignazione da parte dell’opposizione e dei media. Durante il suo intervento, affrontando il problema del calo delle nascite, il ministro ha spiegato che “la società italiana non può arrendersi all’idea della sostituzione etnica”, generando un’isterica reazione di tutto il campo progressista, che lo ha accusato di sostenere tesi razziste e di credere a complotti di stampo neonazista.

La sinistra dei media ha risposto contro Lollobrigida invocando le sue dimissioni e rispolverando un leit motiv che da anni spaccia per verità storica: quello secondo cui gli italiani siano un popolo meticcio e, pertanto, come gruppo umano definito, non esistano. Si possono leggere, infatti, vari articoli che suffragano questa tesi (ad esempio, Gli italiani non esistono. Siamo un grande mix genetico. Tranne i sardi, Corriere della Sera 3 maggio 2018; oppure L’identità inventata degli italiani, Il Fatto Quotidiano, 10 settembre dello stesso anno), oltre a interventi televisivi di giornalisti che affermano l’inesistenza dell’etnia italiana, perché, secondo loro, fin dall’impero romano siamo stati una mescolanza di popoli – latini, greci, etruschi, spagnoli, francesi, arabi, normanni – e proprio grazie a questi incroci siamo diventati un grande Paese. Nulla di più falso. Ancora di più oggi, dopo il referendum sulla cittadinanza e le varie battaglie per lo ius soli.

Sorvolando sul registro linguistico utilizzato da questi soggetti – ‘mix genetico’, ‘popolo meticcio’, ‘mescolanza’, ‘incroci’ – che mostra un criptorazzismo anti-italiano tipico degli intellò di sinistra, è evidente la loro malafede.

Prima di eliminare un popolo fisicamente, bisogna annientarlo culturalmente, scardinando le sue certezze e le sue speranze: per prima cosa bisogna convincerlo di non avere una storia, di non avere delle caratteristiche proprie, di non essere mai esistito. Ma se la cultura è un processo dinamico e variabile nel tempo, all’interno di esso, però, si possono scorgere delle costanti: sono quest’ultime che definiscono l’identità. Parlare di identità italiana significa, quindi, constatare che «la nostra Penisola presenta un insieme di caratteri che complessivamente presi sono solo suoi e non di altri luoghi della Terra» (Ernesto Galli della Loggia, 2018).

L’Italia in Europa possiede l’identità nazionale più definita e antica, non solo da un punto di vista fisico, in quanto i suoi confini naturali sono ben chiari e precisi, ma anche dal punto di vista storico: l’esistenza di un popolo italiano è millenaria, come attesta l’antichità del nome stesso Italia già coniato in epoca pre-romana; gli antichi popoli italici non sono altro che varianti di uno stesso gruppo umano, quello degli Indoeuropei, che trovano in Roma l’elemento di unione e fusione in un unico blocco etnico, linguistico e culturale: dall’epoca della Guerra Sociale (91-89 a. C.), per il riconoscimento della cittadinanza romana agli Italici, fino all’avvento di Augusto, l’Italia come entità statale nell’ambito dell’Impero è pressoché già definita nei suoi confini, che resteranno invariati fino alla Prima Guerra Mondiale, e persino nell’amministrazione interna, con quella divisione in regiones che ricalca, salvo poche differenze, il nostro attuale sistema di Stato regionale. Non è un caso, infatti, che la caduta dell’Impero romano d’Occidente venga considerata da Machiavelli e Guicciardini una catastrofe per l’Italia, che perde la sua unità politico-nazionale fino al Risorgimento.

Nei secoli che intercorrono tra questi due eventi, la Penisola diventa terra di conquista e dominazioni straniere, senza per questo perdere i suoi caratteri: il popolo rimane sostanzialmente una massa romano-italica (tanto che le invasioni allogene non ne intaccano nemmeno la sua genetica) ed è proprio l’antica coesione dell’Italia romana a mantenere vivo un sentimento unitario che è in primis culturale. Il culto di Roma rappresenta, infatti, sempre una costante della nostra storia, tanto che non è sbagliato sentirci eredi dei Romani.

Come scrive Girolamo Arnaldi nel libro L’Italia e i suoi invasori (Laterza 2004) «per gli stranieri l’Italia è stata per secoli, sciaguratamente per noi, un desiderio soddisfatto», elencando in un excursus cronologico tutte le invasioni della Penisola, dal Sacco di Roma dei Visigoti nel 410 d. C. fino alla campagna d’Italia degli Alleati nel 1943: un arco di tempo di millecinquecento anni in cui si succedono Unni, Ostrogoti, Bizantini, Longobardi, Franchi, Arabi, Tedeschi, Normanni, Francesi, Spagnoli e Austriaci.

È proprio a questo aspetto che si appigliano i decostruzionisti di casa nostra per convincerci del fatto che siamo sostanzialmente dei meticci venuti fuori da uno straordinario incrocio di popoli, all’insegna dell’integrazione, e che il nostro destino deve continuare ad essere questo, accogliendo milioni di immigrati che bussano (ma forse è meglio dire sfondano) alle nostre porte. Se è vero che la storia d’Italia è costellata di continui interventi esterni, questi non sono stati altro che invasioni militari di eserciti di altre nazioni; non si è trattato, infatti, di trasferimenti di interi popoli nella Penisola (la sola eccezione sono stati i Longobardi che non erano più di 200 mila) ma di dominazioni straniere sotto altri governi. Dire che l’Italia è stata dominata da Francesi, Spagnoli o Austriaci non significa che milioni di francesi, spagnoli e austriaci si siano trasferiti in massa nel nostro Paese, ma significa soltanto che l’Italia è stata governata da tali potenze straniere.

Numericamente parlando, le invasioni barbariche avvengono in un arco di tempo di un paio di secoli e in proporzioni non confrontabili con i livelli attuali di immigrazione (tra l’altro il rimescolamento demografico che si ha in Europa in quel periodo avviene tra genti di stirpe indoeuropea e non allogena); Goti e Bizantini si contendono il controllo dell’Italia per conto dell’Imperatore d’Oriente; la dominazione diretta degli Arabi in Sicilia dura poco più di due secoli; i Normanni, quando arrivano nell’Italia meridionale, sono qualche centinaio; Franchi, Angioini e Francesi rivoluzionari devastano le nostre contrade; per gli Spagnoli l’Italia rappresenta solo un territorio strategico per il controllo del Mediterraneo; gli Austriaci considereranno sempre gli Italiani il loro ‘nemico ancestrale’.

Ne è ben conscia Oriana Fallaci che, ne La rabbia e l’orgoglio, scrive: «L’Italia è un paese vecchio anzi antico. La sua storia dura, in sostanza, da tremila anni. E nonostante gli invasori che per secoli l’hanno occupata, smembrata, straziata, non è mai stata un paese di emigrati quindi un miscuglio di razze e di religioni e di lingue. […] Inoltre l’Italia non si è mai fusa con gli invasori che la occupavano, la smembravano, la straziavano. […] Al contrario, li ha sempre assorbiti come una spugna che succhia il liquido nel quale è immersa».

Per l’analista Dario Fabbri (2018), la Penisola rappresenta forse l’unico caso di omogeneità geo-politica e uniformità culturale del continente europeo, in quanto gli Italiani «riconoscono una sola lingua nazionale, il resto degli idiomi è per definizione dialettale. Condividono la medesima cultura cattolica, nello Stivale nessuna teologia aliena ha prodotto costumi concorrenti. Vivono in un’unica comunità etnica, qui non si rintracciano tribù o popoli alternativi. […] Perché le incongruenze degli italiani sono di natura micro culturale, incapaci di trascendere la stirpe. Non riguardano la cifra ancestrale dei cittadini, facilmente distinguibile ancor prima della fase risorgimentale», tanto che «l’assenza di un concreto iato tra le sue parti potrebbe consentire all’Italia di conservarsi».

 

Gianluca Rizzi

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