Roma, 29 mag – C’è chi – con un certo numero di primavere sulle spalle – si ricorda come se fosse ieri dov’era la sera del 4 luglio 2006 e chi, semplicemente, non è italiano. Un paio di giorni dopo la semifinale del mondiale tedesco (quei centoventi minuti passeranno alla storia come l’Italia-Germania della nostra generazione) su Liberazione, quotidiano di Rifondazione Comunista, il direttore Piero Sansonetti teneva a farci sapere che durante la sua gioventù “c’erano solo due tipi di cortei: quelli con le bandiere rosse e quelli con le bandiere tricolori. Così l’altra sera mi ha dato un po’ fastidio quel brulicare di bandiere tricolori in tutte le città”. Una situazione grottescamente definita come “grande componente nazionalista e, in parte, persino xenofoba”. Qualcuno si metta in contatto la Space City, Houston abbiamo ancora un problema. O meglio, a (cento)vent’anni di distanza la sinistra proprio non riesce a trovare soluzione alle continue crisi di rigetto verso i simboli identitari.
La sai l’ultima della sinistra?
L’ultima – in ordine cronologico – ci arriva da Giuliano Amato. L’ottantasettenne ex senatore dell’Ulivo (già deputato con il Partito Socialista) ha preso infatti posizione sulla vicenda che ha visto protagonista Katharina Zeller del Südtiroler Volkspartei. Il sindaco di Merano, fresca di elezione, si è rifiutata di indossare la fascia tricolore: vede nella bandiera nazionale una prepotenza della destra.
L’uomo dalle mille poltrone – occhio e croce qualche giuramento sulla quella Costituzione che tra i suoi principi fondamentali comprende pure l’articolo 12 deve averlo fatto – riesce ad andare oltre. Secondo il Dottor Sottile, infatti, la figlia d’arte (troviamo la madre al Senato, mentre il padre è stato a lungo parlamentare) avrebbe “chiaramente reagito a un maschio impositore che, approfittando anche del fatto che lei era donna, le stava imponendo la fascia”. Un episodio – gravissimo – non solo minimizzato, da “fare scivolare il più possibile senza piantarci grosse grane”, ma nel quale chi si è volontariamente seduto dalla parte del torto (marcio) andrebbe addirittura a ritrovarsi nel ruolo di vittima.
Una lunga lista
Dinamiche che riflettono alla perfezione una certa forma mentis propria della sinistra: l’avversione nei confronti di qualunque cosa che abbia foggia ben definita e direzione centripeta. Ovvero l’identità, qualsiasi identità. Concetto all’opposto dei vari minestroni Lgbt, degli strilli delle femministe o di una non meglio precisata umanità.
È il sindaco dem di Bergamo che puliva una targhetta del comune orobico con il Tricolore. Oppure l’ex presidente della Camera, il pentastellato Roberto Fico, con le mani in tasca durante la prima strofa dell’Inno di Mameli. E così via, fino alla cantante Francamente per la quale il testo della canzone degli italiani sarebbe da cambiare in quanto “non inclusivo”. E la bandiera nazionale da archiviare perché “anacronistica”.
La solita sinistra
La solita sinistra, verrebbe da dire. Quella nata a Mosca e cresciuta a Washington, che guarda a Londra, Parigi e Berlino. Attitudine, quest’ultima, da non considerarsi un male in senso assoluto, anzi. Lo diventa però nel caso specifico, ossia quando ci si dimentica completamente di Roma. Della sua culla e dei suoi simboli, della sua terra e del suo cielo, della sua carne e del suo spirito: lorsignori vedono nello sventolio del tricolore o nell’intonazione di Mameli il sempreverde ritorno del fascismo. Problemi loro, appunto. Dal canto nostro, abbiamo anche dei difetti.
Marco Battistini