Roma, 25 ago – C’è chi, come l’Anpi, difende a spada tratta il Leoncavallo, definendolo “centro di cultura, di arte e di vita sociale”. E c’è chi, nello stesso respiro, invoca lo sgombero immediato di CasaPound, bollandola come un “bivacco di manipoli pronti a tutto”. A parlare è Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale dell’Associazione partigiani, che dopo lo sgombero del Leoncavallo a Milano non ha perso l’occasione per scagliare l’ennesimo anatema contro l’esperienza della Tartaruga frecciata.
CasaPound attaccata da tutti dopo il Leoncavallo
Il paradosso è lampante. A Milano, dopo che il Leoncavallo è stato sgomberato, si è alzato un coro unanime che ha subito spostato il baricentro dell’attenzione su CasaPound, l’unica occupazione di destra in Italia in un panorama dominato dal rosso. La stessa Anpi, che si è immediatamente attivata per sostenere economicamente la riapertura del centro sociale con una colletta lanciata dalle “mamme antifasciste”, è la stessa che per l’occupazione romana non chiede dialogo, soluzioni alternative o tavoli istituzionali, ma pretende il pugno duro e lo sgombero immediato. Il ministro dell’Interno Piantedosi, commentando la vicenda, ha ricordato che “prima o poi arriverà anche il turno di CasaPound”. Parole che Pagliarulo ha rilanciato chiedendo di accelerare i tempi, additando come “energumeni” i militanti disposti a difendere con fermezza la loro sede. La memoria corta dell’Anpi cancella però i decenni di occupazioni rosse e i centri sociali elevati a patrimonio “storico e sociale”. Dunque il teorema è il seguente: se a occupare è la sinistra antagonista, si parla di cultura, arte, socialità. Se a farlo è CasaPound, allora diventa immediatamente “violenza politica”, “minaccia fascista”, “bivacco di manipoli”. Due linguaggi, due pesi, due misure. As usual.
Il mantra dei “centri sociali brava gente”
Del resto in questi giorni, dopo lo sgombero del Leoncavallo, abbiamo sentito ripetersi ovunque lo stesso mantra ossessivo, declinato in vario modo ma con la stessa sostanza: “centri sociali brava gente”. Una formula che ha il sapore dell’autoassoluzione e della propaganda. Si prende a modello il centro sociale come luogo di cultura e socialità, escludendo automaticamente tutta la storia che racconta anche altro: decenni di radicalizzazione del dissenso, violenze di piazza, occupazioni abusive, milioni di euro di danni provocati da collettivi e reti antifasciste dentro scuole e università. La leggenda dei “laboratori culturali” serve a occultare il ruolo dei centri sociali come incubatori di antagonismo permanente, tollerati e perfino finanziati dalle amministrazioni amiche. Insomma, per la sinistra le occupazioni non sono mai un problema di legalità: diventano automaticamente “valori da difendere”, simboli intoccabili, patrimonio politico da rivendicare. Ora, qui non si vuole negare il valore delle occupazioni come atto politico, né il loro ruolo aggregativo in contesti cittadini svuotati di identità. Però se l’occupazione ha un valore quando la porta avanti la sinistra, lo stesso deve valere quando la pratica la destra. Non si può semplicemente passare il cancellino per smacchiarsi la coscienza e, nello stesso tempo, pretendere di far rimuovere con lo stesso atto sbirresco che si contesta le esperienze che non piacciono.
La favola dei “bambinoni sedati”
C’è addirittura chi in questi giorni ha difeso indirettamente i centri sociali sostenendo che sarebbero luoghi dove il ribellismo giovanile viene addomesticato, trasformando i ragazzi in “bambinoni innocui”. Una lettura semicolta e totalmente fuori dalla realtà. Basta guardare ai fatti: da Ilaria Salis e le bande antifasciste attive in tutta Europa, agli scontri di Gallarate, fino ai movimenti pro-Palestina che hanno occupato università e devastato aule, non sembra proprio che dai centri sociali escano generazioni sedate e innocue. Al contrario, i CSOA hanno rappresentato e continuano a rappresentare un laboratorio militante della sinistra radicale, capace di alimentare conflittualità reale, di agire come cinghia di trasmissione del dissenso e di muoversi sia sul piano politico che sul piano culturale. Appare evidente a chiunque non abbia i paraocchi che la querelle sugli sgomberi non sia una questione di mera legalità, ma una battaglia tutta politica. Quando si tratta di difendere i centri sociali rossi, l’Anpi invoca soluzioni condivise, riconoscimenti ufficiali, perfino contributi economici. Quando il discorso si sposta su CasaPound, l’unica risposta invocata è quella dello sgombero coatto. Il messaggio è chiaro: esistono occupazioni “giuste”, che producono cultura di sinistra, e occupazioni “sbagliate”, che incrinano il monopolio ideologico dell’antifascismo militante.
CasaPound si è sempre difesa
In ogni caso, Luca Marsella, portavoce della Tartaruga frecciata, ha ribadito un concetto semplice: “Al contrario di quello che non hanno fatto al Leoncavallo, se dovessero arrivare per sgomberarci, noi difenderemo il palazzo”. Uno spirito che potrebbe non piacere alle anime candide, ma che non è certo una novità: nel 2015 i militanti del Blocco Studentesco difesero lo spazio occupato a Piazza Perin del Vaga; nel 2022 i militanti di CasaPound si frapposero allo sgombero coatto del Circolo Futurista nel quartiere romano di Casal Bertone. Momenti di tensione, sì, ma affrontati senza le coperture politiche, culturali e mediatiche che oggi parlano di un mondo che capiscono appena, giustificando quelli e condannando quegli altri. Che piaccia o no, in Italia c’è chi fa politica di strada e questa è la sua regola: le occupazioni si difendono prima fisicamente, poi politicamente. Ed è proprio questo che manda in fibrillazione l’Anpi & Co. Non l’illegalità – che abbonda nelle esperienze dei centri sociali rossi –, ma la sfida simbolica che CasaPound rappresenta dal 2003: una comunità radicata, capace di resistere agli attacchi mediatici, politici e istituzionali senza mai piegarsi.
Vincenzo Monti