Roma, 7 ott – La parabola pubblica di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi, è l’emblema di un mutamento più profondo: la sinistra italiana non ha una leadership riconosciuta. Il Partito democratico continua a orbitare intorno a Elly Schlein, figura fragile, oscillante fra militanza giovanile e tattica parlamentare, ma priva di una vera autorità sul suo campo. In questa voragine, le piazze di solidarietà a Gaza e l’indignazione per l’offensiva israeliana hanno trovato un volto in Albanese, avvocato romano, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi, diventata in poche settimane più riconoscibile di qualunque dirigente dem.
Albanese a sinistra della sinistra
È un paradosso solo apparente: dove manca un leader politico, si innalza un capopopolo mediatico. Albanese si muove a sinistra della sinistra, intercetta i cortei, i centri sociali, le reti pacifiste, il malcontento anti-atlantista e anti-israeliano. Non ha un partito né un programma interno, ma ha un capitale simbolico: il volto della denuncia del “genocidio”, il linguaggio di chi “dice la verità al potere”, l’aura di indipendenza da un partito percepito come stanco e burocratico. Non a caso, quando lascia lo studio di In Onda dopo il diverbio sulla parola “genocidio” e liquida Liliana Segre con un «non è lucida», le sue frasi scuotono più l’opinione pubblica della linea ufficiale di Schlein. Le prime fratture esplodono dentro il Pd. Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, parla apertamente di «molto narcisismo, poca politica e molta arroganza», accusando il partito di aver smarrito la bussola e di inseguire il “bipopulismo” delle piazze. Filippo Sensi, deputato ed ex portavoce di Palazzo Chigi, avverte che «non è l’ora dei protagonismi individuali» e che «la priorità, per chi ha a cuore Gaza, è sostenere con tutte le forze il piano di pace, non distrarlo con personalismi». Elisabetta Gualmini, europarlamentare, contesta la cittadinanza onoraria concessa a Bologna: «Il compito di un sindaco è unire, non dividere. Francesca Albanese, comunque la si pensi, è una figura polarizzante e divisiva». Il dissidio diventa teatrale quando a Reggio Emilia Albanese si copre il volto con le mani in segno di esasperazione mentre il sindaco Marco Massari cita gli ostaggi israeliani. Poi lo apostrofa con un «ti perdono ma non ripeterlo più». Un gesto che per Gualmini è «penoso e inaccettabile» e che fotografa bene la mutazione della politica in spettacolo emotivo: slogan, gesti, selfie, dialettica “frizzante”. Esattamente la postura che la sinistra contesta a Meloni da circa tre anni.
Una sovraesposizione che scotta il Pd
Dietro la sovraesposizione c’è anche una questione più concreta: il marito di Albanese, Massimiliano Calì, economista senior della Banca Mondiale, ha avuto in passato incarichi di consulenza per il ministero dell’Economia dell’Autorità Palestinese. Un dettaglio che diversi osservatori citano come possibile conflitto d’interessi, sommato a vecchi post molto critici verso Israele e Stati Uniti che per alcuni violerebbero il principio di neutralità del mandato Onu. Eppure, proprio questi elementi che la rendono divisiva per il Pd la trasformano in bandiera di un potenziale “fronte popolare” che una parte della sinistra italiana sogna di costruire a imitazione della coalizione francese di Mélenchon: un’alleanza movimentista, ambientalista, femminista, radicale sui diritti civili e ostile alla linea atlantica. E perchè no, magari anche orientato a rappresentare immigrati, maranza e seconde generazioni. Albanese, forte di una causa internazionale che lei stessa definisce “intersezionale” (comprendente cioè genere, classe, orientamento sessuale), potrebbe diventare il collante simbolico di questa galassia, mentre il Pd di Schlein appare incapace di imporre un’agenda che vada oltre le dichiarazioni di principio. Questa dinamica spiega perché le critiche di Picierno, Sensi e Gualmini non sono solo disciplinari ma strategiche: temono che l’“effetto Albanese” travolga l’ultima pretesa di centralità del Pd, consegnandolo a una sinistra-piazza priva di responsabilità di governo. Da qui l’insistenza di Sensi sul «fare presto per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi», e non distrarsi con «protagonismi individuali».
Il progresso non è per forza miglioramento
In controluce si intravede un conflitto di fondo: il partito che ambisce a governare (ma che soprattutto ha già governato abbondantemente) contro la sinistra che vuole arrivare a qualcosa di diverso, ibrido e radicalizzato. In mezzo, la guerra a Gaza continua a mietere vittime e a dettare l’agenda emotiva di un’opinione pubblica che chiede volti e gesti più che strategie. Se c’è la possibilità che il Pd abbia imboccato il sentiero del tramonto, c’è anche la possibilità che la figura di Francesca Albanese diventi non solo il simbolo della causa palestinese in Italia, ma anche il primo passo verso una scissione politica in grado di dare alla sinistra radicale un leader carismatico e un orizzonte di potere. Non sempre il progresso è sinonimo di miglioramento. Chi verrà dopo i dem?
Sergio Filacchioni