Genova, 1 ott – Che l’infiltrazione della criminalità organizzata – e della ‘ndrangheta in particolare – al settentrione sia ormai un fatto, è cosa nota. Specialmente in Liguria, dove fece all’epoca (correva l’anno 2011) scalpore lo scioglimento del consiglio comunale di Bordighera: uno schiaffo alla convinzione che al nord si potesse prescindere da certi problemi. I quali, nel frattempo, sono andati ad acuirsi: dall’inchiesta Aemilia al recente arresto del sindaco di Seregno, le famiglie di mafia continuano nella loro ascesa alla conquista delle regioni padane e limitrofe. Un’ascesa non solo economica, fatta di appalti pubblici, rapporti più o meno discutibili con le cooperative e gli altri gangli del potere, ma anche e soprattutto politica. Con un protagonista d’eccezione, oltre ai già consumati in materia Pd e Forza Italia: i Cinque Stelle.
Proprio loro, quelli che vorrebbero sentire il tintinnìo delle manette ad ogni piè sospinto, gli stessi che venerano (o veneravano? Dopo alcuni ultimi fatti anche le loro granitiche certezze perdono colpi) come religione del libro le sentenze, i forcaioli che chiedono la testa di chiunque riceva un mezzo avviso di garanzia. E già, proprio i Cinque Stelle, che proprio in Liguria, la regione del fondatore e dominus Beppe Grillo, devono fare i conti proprio con una sentenza che smaschera buona parte della narrazione che divide i buoni (loro) dai corrotti (gli altri).
La vicenda ruota attorno a Daniele Comandini, esponente pentastellato capolista nella circoscrizione di Imperia in occasione delle regionali liguri del 2015, alle quali i Cinque Stelle con il loro 25% sono arrivati ad un soffio dal superare il Pd. Non stiamo parlando di uno qualsiasi, dato che durante la campagna elettorale faceva bella presenza sul palco di fianco ad Alessandro di Battista. Antonio Amorosi, giornalista d’inchiesta, firma de La Verità e di Affaritaliani.it, scopre in quell’occasione che Carmine Mafodda sostiene la sua candidatura. E chi è Carmine Mafodda? Niente meno che il figlio di Palmiro Mafodda, boss dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta. Un clan tra i più feroci, “coinvolti in numerose inchieste giudiziarie – spiega oggi Amorosi – tra cui «Maglio 3», «La svolta», «Roccaforte», «Colpo della strega», e anche quelle che negli anni ’80 portarono all’arresto del presidente della Regione Alberto Teardo”. Non proprio gli ultimi della catena di comando nelle ndrine, par di capire. La rivelazione non piace però ai grillini, che a parte qualche timida richiesta fanno quadrato attorno al loro candidato, non risparmiandosi anche una denuncia per diffamazione nei confronti del giornalista.
Mal gliene incolse, perché il processo (insolitamente rapido: meno di due anni per arrivare alla sentenza di primo grado) dà totalmente ragione ad Amorosi. “Perché il fatto non sussiste”, assoluzione con una delle formule più ampie possibili. Il motivo lo scrive il giudice estensore della sentenza, Clara Guerello: “La verità del fatto storico presupposto – si legge nel dispositivo – ovverosia la biasimevole ed imbarazzante vicinanza del Comandini (capolista Movimento 5 Stelle per le regionali del 2015) a Carmine Mafodda (figlio del boss Palmiro, notoriamente appartenente alla omonima famiglia ‘ndraghetista da anni radicata nella zona dell’imperiese ed in particolare ad Arma di Taggia) è infatti un dato pacificamente emerso ad esito del giudizio”. Parole come macigni, che se valgono un’assoluzione per l’imputato aprono allo stesso tempo scenari inquietanti sulla forza politica che si candida a guidare l’Italia.
Nicola Mattei