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Raid ucraini in profondità: la Russia si scopre vulnerabile, anche dentro

by Sergio Filacchioni
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Roma, 2 giu – Nella notte tra il 31 maggio e il 1° giugno, le forze ucraine hanno condotto raid a lungo raggio contro due basi aeree militari russe, utilizzando una combinazione di droni e probabili supporti di intelligence interna. Tra chi parla apertamente di una “Pearl Harbor” Russa e chi minimizza l’avvenuto, cerchiamo di capire cosa significa questo attacco. Per la Russia ma anche per noi.

Il raid di Kyiv ha colpito in profondità

Secondo le prime informazioni emerse da fonti di Kyiv, i raid avrebbero causato danni significativi a infrastrutture e mezzi militari, tra cui diversi cacciabombardieri Su-34. «Sono stati distrutti 41 bombardieri», rivendica l’intelligence ucraina, quantificando i danni in «oltre due miliardi di dollari». Le basi colpite si trovano nelle regioni russe di Voronezh e Belgorod, a centinaia di chilometri dalla linea del fronte, a conferma della crescente capacità dell’Ucraina di portare la guerra ben oltre i propri confini nazionali. Ma la vera portata dell’operazione è emersa in modo più chiaro solo ieri: si è trattato dell’operazione “Ragnatela”, orchestrata direttamente dal capo dell’SBU, Vasyl Malyuk. Un piano ingegnoso che ha previsto il posizionamento di centinaia di droni preconfezionati all’interno di Tir parcheggiati nei pressi delle basi russe più sensibili. Sfruttando la stessa rete LTE russa per il controllo remoto e contando su complici interni, i droni sono stati attivati simultaneamente per colpire gli aeroporti strategici di Olenya e Belaya, distruggendo o danneggiando alcuni tra i più preziosi assetti dell’aviazione strategica russa. Le autorità russe hanno confermato l’attacco, minimizzandone però l’impatto, come spesso accade.

La “Pearl Harbor” Russa?

Ma questa volta nemmeno la propaganda del Cremlino è riuscita a mascherare del tutto la portata dell’attacco. Un noto canale Telegram filogovernativo ha parlato apertamente di una «Pearl Harbor russa», ammettendo che «molti bombardieri strategici dislocati negli aeroporti di Irkutsk e Murmansk sono distrutti o danneggiati». Una definizione che è subito rimbalzata ovunque sul web. Ma quanto c’è di vero in questa narrazione? Sappiamo per certo – dalle immagini diffuse dalla stessa SBU – che sono stati gravemente danneggiati 5 Tu-95MS (vettori missilistici strategici), 2 Tu-22M3 (bombardieri a lungo raggio) e 1 An-12 (aereo da trasporto militare). La cifra di 41 bombardieri distrutti, quindi, appare al momento priva di riscontri. In effetti, i numeri reali, seppur non catastrofici, restano comunque gravi. L’aviazione strategica russa comprende circa 58 Tu-95, 19 Tu-160 e 55 Tu-22M3: una perdita confermata di 7 aerei rappresenta comunque oltre il 6,5% della flotta strategica. Un colpo notevole quindi, sia per la qualità della beffa sia perchè alcuni di questi velivoli non sono più in produzione da decenni, quindi la loro sostituzione è incerta. L’impatto operativo immediato è certamente modesto. I Tu-95 utilizzati nei raid sull’Ucraina lanciano principalmente missili da crociera Kh-101, e ogni velivolo ne può portare fino a otto. Negli attacchi recenti, Mosca ha impiegato al massimo 40 missili in un singolo raid, il che significa che bastano 5-6 aerei operativi per mantenere la stessa capacità d’attacco. E di Tu-95, al netto delle perdite, Mosca ne ha ancora più di 50. Dunque, definire l’attacco come una Pearl Harbor appare decisamente una forzatura mediatica se messa sul significato di “perdita di operatività”. Eppure, il danno resta strategicamente significativo. Il fatto che questi velivoli fossero parcheggiati all’aperto, senza hangar di protezione, in piena fase avanzata di guerra, dimostra una negligenza militare sconcertante. Insomma, potrebbe non essere Pearl Harbor per i danni, ma sicuramente è una “Buccari” per il significato intrinseco dell’azione.

La risposta Russa ai raid e l’ipocrisia occidentale

Nel frattempo, è tornata l’ormai consueta retorica della “risposta adeguata”, accompagnata da minacce più o meno velate che includono, ancora una volta, la possibilità di un’escalation nucleare. La verità è che non si tratta di strutture secondarie né di obiettivi tattici sul fronte: parliamo di installazioni profonde, simbolicamente e logisticamente rilevanti, che testimoniano la vulnerabilità crescente di un apparato militare che si presenta al mondo come “secondo solo a quello americano”, ma che fatica a tenere a bada un Paese formalmente più piccolo, meno armato e invaso sin dal 2022. La risposta russa è stata la solita: negazione, minimizzazione, e la solita retorica della rappresaglia. Poco importa che Mosca continui a colpire quotidianamente infrastrutture civili in Ucraina – scuole, ospedali, centrali elettriche – senza che questo susciti scandalo nei soliti ambienti “pacifisti”. A far discutere, ora, è che l’Ucraina abbia osato colpire. Non importa che siano obiettivi militari: la colpa, sembra, è sempre di chi si difende. È qui che si rivela il paradosso più grottesco del discorso occidentale: l’invaso come ostacolo alla pace. L’invasore come interlocutore “da non esasperare”. Un rovesciamento logico e morale che solo un certo progressismo intellettuale poteva digerire con nonchalance. La verità dei fatti è che Mosca non ha annullato il secondo round dei negoziati in programma a Istanbul. e nonostante un attacco alle capacità strategiche potrebbe giustificare l’uso dell’arma atomica, Putin non lo farà perchè perderebbe la guerra su ogni fronte: diplomatico, militare, politico. Mosca è costretta a digerire ancora una volta una ridefinizione dei suoi concetti di “inviolabilità”.

Una riflessione più profonda

Ma l’attacco ucraino apre anche una riflessione che travalica il campo di battaglia e tocca un nervo vivo delle società contemporanee. Perché un’operazione di questa portata non è solo questione di droni e tecnologia: presuppone reti di supporto, informatori locali, collaboratori interni. È lecito ipotizzare che Kyiv abbia potuto contare su “basisti” attivi in territorio russo. Persone che vivono nella Federazione, parlano la lingua, ma evidentemente non si riconoscono in essa. Ed è a questo punto che la riflessione si allarga. Perché se persino in Russia – patria del potere verticista, dell’identità imposta e della sorveglianza capillare – esistono sacche interne pronte a collaborare col nemico, cosa accade nei Paesi europei, dove la cittadinanza è un timbro su un modulo e la coesione nazionale un concetto da guardare con sospetto? Chi vive in una società multiculturale dovrebbe farsi qualche domanda. Davvero costruire Paesi etnicamente frammentati, dove milioni di persone non condividono lingua, storia, valori o senso del dovere verso la comunità nazionale, è una strategia lungimirante? La risposta, in tempo di pace, è facile da eludere. In tempo di guerra, diventa improvvisamente urgente. Perché la verità è semplice: la prima linea di difesa di una nazione non è fatta di missili o radar, ma di cittadini. E se quei cittadini non sentono di appartenere alla comunità che dovrebbero difendere, allora il nemico ha già un piede dentro i confini

La Russia si scopre fragile come l’Occidente

Ed è qui che la Russia si scopre molto più simile all’Occidente di quanto non voglia, o non si voglia far credere. La narrazione di Mosca come baluardo della Tradizione, della coesione identitaria, della sovranità organica, regge fino a un certo punto. La realtà è ben diversa: la Federazione Russa è un patchwork di etnie, lingue e religioni tenute insieme non dalla coesione, ma dal timore. Ceceni, tartari, buriati, calmucchi, daghestani, popoli caucasici e asiatici convivono sotto un’unica bandiera più per inerzia che per scelta. A differenza dell’Ucraina – che, proprio grazie alla guerra, ha innescato una rinnovata compattezza nazionale – la Russia continua a poggiare su una struttura imperiale che oggi mostra tutte le sue crepe. È un mondo che si presenta come alternativo all’Occidente, ma ne condivide la fragilità strutturale: popolazioni che non si sentono parte di un destino comune, un’élite scollegata dal popolo, una narrativa identitaria basata sull’antifascismo sovietico che prova a compattare ciò che altrimenti resterebbe diviso. La guerra, come sempre, accelera la verità. E quella verità è che l’identità vincente del XXI secolo non sarà solo quella con più missili, ma quella con più coesione, più cittadinanza condivisa, più senso di appartenenza. La vera domanda, dunque, non è chi vincerà la guerra. Ma quale modello saprà sopravvivere alla prova della storia. Risposta: non chi avrà più droni, ma chi avrà più fedeltà.

Sergio Filacchioni

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