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Altro che folklore: il 9 maggio è un’arma ideologica contro l’Europa

by Sergio Filacchioni
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9 maggio

Roma, 5 mag – Mentre gli opinionisti da salotto continuano a rassicurarci che la retorica russa sia “solo folklore sovietico”, “memoria storica” o “esigenza patriottica interna”, fuori dalle redazioni e dentro le piazze italiane si muove qualcosa di ben più concreto: la propaganda russa lavora per costruire una nuova festa della liberazione il 9 maggio. E, come vi avevamo già detto, lavora per influenzare direttamente le dinamiche del dissenso occidentale. A farne le spese? Il fragile – e già timido – tentativo europeo di rispondere con un minimo di riarmo e strategia comune alle minacce esterne.

Le “casualità” del 9 maggio

Da Nord a Sud Italia, mentre Mosca si prepara alla tradizionale parata del 9 maggio, commemorazione della vittoria sovietica sulla Germania nazionalsocialista, fioriscono – puntuali – manifestazioni e mobilitazioni “antifasciste” anche nelle nostre città, da Torino a Bari. E guarda caso, sempre negli stessi ambienti: collettivi, sigle studentesche, centri sociali. Quelli che da anni sono attivi nella guerra ideologica (e fisica) contro il “pericolo fascista”, che imbrattano monumenti o cercano di cancellare la memoria dei caduti della destra radicale. L’ultimo episodio? Proprio ieri, a Genova. Sono gli stessi che scrivono sui muri “10, 100, 1000 Acca Larenzia” o “Tutti i fasci come Ramelli”; che si organizzano nelle università per boicottare le sigle studentesche non allineate, al grido di “uccidere un fascista non è reato”. Oggi, con dieci anni di ritardo, bruciano le bandiere UE, lanciano campagne pacifiste a senso unico, e invocano il disarmo europeo come panacea di tutti i mali. Il copione è noto: demonizzare ogni tentativo di difesa continentale, delegittimare qualsiasi sforzo strategico, consegnare la narrazione simbolica e storica a potenze straniere. Non servono complotti: bastano le parole di Medvedev su Piazzale Loreto. Altro che “gaffe”. La minaccia delle impiccagioni pubbliche, oltre i rigurgiti verbali, conferma l’obiettivo: culturale, simbolico, profondamente strategico.

Il 1945 non è solo una data

A chi, con sarcasmo, ripete spesso “vi siete fermati al 1945”, rispondiamo: sì, ma evidentemente non siamo da soli. Anche Mosca, Pechino e perfino Tel Aviv si muovono ancora dentro il perimetro simbolico tracciato da quella data. E a dimostrarlo non è solo la parata militare sulla Piazza Rossa: è anche ciò che accade nelle capitali occidentali. Proprio oggi, il 5 maggio 2025, Re Carlo III ha ricevuto i leader alleati a Buckingham Palace, esattamente come fece suo nonno Giorgio VI, per commemorare gli 80 anni dalla “vittoria contro il male”. Stessa retorica, stesso lessico morale, stesso schema: ci sono i liberatori e ci sono i malvagi. Cambia solo il tipo di “male” da combattere. La verità è che non si è fermata la storia, ma un intero sistema di potere che su quella vittoria ha fondato la propria legittimità e ha bisogno di riattualizzarla per mantenersi in piedi. Se oggi sia l’Est che l’Ovest continuano a evocare l’8 e il 9 maggio come date rifondative, è perché nessuno ha mai davvero superato quella logica binaria. Né loro, né gli altri (sul “noi” si tornerà dopo). Il 1945 resta il punto di frattura della narrazione europea. E il confronto su quella memoria non è chiuso: è vivo, attuale, esplosivo. Per questo oggi non si tratta di scegliere tra due memorie imposte: si tratta di spezzare l’incantesimo che le tiene in vita.

L’antifascismo come cavallo di Troia

«Dapprima, sembrò che avessimo perduto soltanto noi e i Tedeschi. Oggi è chiaro che tutta l’Europa è stata sconfitta. Mi basta che tu sappia che il fascismo fu una creazione originale, italiana, che non riuscì a completare il suo ciclo vitale, la sua esperienza storica, perché cause esterne all’Italia lo distrussero: la sconfitta militare, la soverchiante potenza di nazioni più ricche e più forti di ogni nazione europea. Non furono i fascisti che ottennero “aiuti anche da parte di Stati stranieri” […] ma gli antifascisti. Questi sì, che ottennero aiuti dallo straniero: tornarono tra noi al seguito dello straniero, si misero a comandare in Italia appoggiati dalle baionette straniere».

(Piero Buscaroli, Una nazione in coma)

Quindi, mentre il dissenso occidentale viene imboccato dai simboli e dalle parole d’ordine dell’antifascismo, Mosca ride (e ovviamente, Washington pure). Perché il suo antifascismo non è “di maniera”: è sostanziale, funzionale, operativo. Serve a giustificare l’aggressione all’Ucraina, a delegittimare ogni forma di resistenza culturale e geopolitica dell’Europa orientale, e a imporsi come unico vero erede della “lotta contro il male assoluto”. Ecco allora che le retoriche antifasciste italiane – in apparenza locali – si sincronizzano perfettamente con il calendario russo e tornano a infestare lo spazio pubblico. A chi ancora oggi insiste nel dire che “la Russia non c’entra”, rispondiamo: anche se fosse, come fa a non entrarci? La narrazione di Mosca ha un target preciso: cortei, assemblee, appelli disarmisti. E infatti funziona. Ogni volta che in Europa si prova a parlare seriamente di difesa comune, arriva il riflesso condizionato dei “liberatori” del 25 aprile, oppure del 9 maggio. In entrambi i casi comunque – sia nel culto resistenziale italiano che nel revival patriottico russo – ciò che si celebra è la sconfitta dell’Europa e la vittoria del materialismo capitalistico-bolscevico. Se non siete d’accordo con questo, potete fermarvi qui nella lettura.

La guerra ibrida passa per la memoria

Quella a cui assistiamo non è solo una guerra militare. È una guerra di simboli, miti, parole. Chi controlla la memoria, controlla il futuro. E la Russia lo sa bene: mentre l’Europa si vergogna della propria storia, Mosca ne fabbrica una su misura, la riscrive, la utilizza come strumento di mobilitazione. A sinistra, sono in molti a prestarsi a questa operazione – consapevolmente o meno. Perché se il 25 aprile è ormai una festa vuota e istituzionalizzata (e persino divisiva per la stessa sinistra, come abbiamo più volte sottolineato), il 9 maggio russo si propone oggi come una celebrazione totalizzante, identitaria, che impone un ordine e un nemico. Una visione chiara, urlata su striscioni e volantini: “I comunisti hanno liberato l’Europa”, “I reazionari vogliono riarmarla”. E mentre si canta la solita “resistenza al fascismo”, si impedisce all’Europa di resistere a qualcosa di reale. Provate a parlare di difesa autonoma, industria militare nazionale o politica estera strategica: ecco che scatta la contraerea ideologica. Fascisti! Guerrafondai! Euronazisti!

Il nemico del tuo nemico… resta un nemico

Lo ripetiamo da anni: essere contro l’Occidente non basta per essere dalla parte giusta. Se Mosca oggi punta a colonizzare anche la protesta, il dissenso, persino il sovranismo stanco e disilluso, è perché ha capito che in Europa esiste un vuoto. Un vuoto culturale, valoriale, spirituale. L’antifascismo woke e quello post-sovietico sono due facce della stessa medaglia: consegnano all’anti-europeo le armi morali e ideologiche per la sua lotta decostruzionista. Entrambi tendono allo stesso risultato: spezzare definitivamente la schiena allo spirito profondo dell’Europa, alla sua identità politica nazionale, ad ogni possibilità di superamento delle divisioni interne in ottica rivoluzionaria. E ci stanno riuscendo. Se oggi, mentre Trump si ritrae come Papa e la Russia minaccia impiccagioni e grida al “nazismo europeo” contro chiunque osi difendere la sovranità continentale, c’è ancora chi definisce tutto questo “folklore”, allora il problema non è più geopolitico. È psicologico. È spirituale. La Russia non è un baluardo contro il globalismo. È un impero (o almeno vorrebbe esserlo) che vuole installare una narrazione totalitaria sopra un’altra. E chi oggi marcia fianco a fianco con i nemici della nostra civiltà, solo perché “combattono l’Occidente”, dovrebbe chiedersi se ha ancora una direzione. O se ha semplicemente scelto di perdersi.

Sergio Filacchioni

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