Roma, 16 lug – In un’intervista recente a La Stampa, lo storico Carlo Ginzburg si è scagliato contro le nuove Indicazioni nazionali per l’insegnamento della storia nelle scuole italiane. La sua critica non è solo accademica, è politica: dietro la polemica sul metodo, c’è la solita visione cosmopolita e relativista che da anni domina certi ambienti universitari. Per Ginzburg, parlare di identità nazionale sarebbe un’operazione pericolosa, frutto di provincialismo e residui del passato. Peccato che, così facendo, si scambi il sano spirito critico con un attacco sistematico a qualsiasi forma di appartenenza.
L’identità come fondamento della nazione
Il problema di fondo non è solo accademico, ma esistenziale e politico. Certo, le identità non sono biologiche né immutabili, come ci insegna anche Benedict Anderson nel celebre saggio Comunità immaginate. Le Nazioni – dice Anderson – sono costruzioni culturali condivise, non perché siano false, ma perché sono immaginate collettivamente, nel senso che nessuno conosce personalmente milioni di concittadini, eppure li sente come parte della stessa comunità. In altre parole, l’identità nazionale è una scelta consapevole e volontaria, un atto collettivo di riconoscimento reciproco. Non è un residuo del passato, ma uno strumento fondamentale per dare senso al presente e costruire il futuro. L’approccio di Ginzburg, invece, porta alla diluizione delle identità in nome di un multiculturalismo senza confini. Si afferma che i bambini non devono essere educati al bene e al male, ma all’ambiguità. Che non bisogna trasmettere un senso di appartenenza, ma mettere insieme pezzi di culture diverse, come in un mosaico confuso. Questo ragionamento però funziona sempre in un solo senso: verso la dissoluzione dell’identità italiana ed europea, mai verso quella di altri popoli. In pratica: noi dobbiamo rinunciare a tutto, gli altri possono mantenere tutto.
Non è una questione di prospettive
Ginzburg critica anche l’idea che si debba insegnare ai bambini a distinguere tra verità storica e finzione narrativa. Sarebbe un’operazione “velenosa”, perché – secondo lui – la storia è sempre un racconto da interpretare. Ma qui si confonde Nietzsche con il relativismo da salotto. Quando Nietzsche scriveva “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, non stava suggerendo che ogni versione della realtà valga quanto un’altra. Il suo prospettivismo è un invito a riconoscere i limiti della conoscenza umana, non a rinunciare a ogni ancoraggio. La storia non è una scienza esatta, certo, ma non è neppure un gioco di specchi dove tutto si equivale. C’è differenza tra un’analisi basata sui documenti e una fiction televisiva. Insomma, Joe Wright non può sostituire Renzo De Felice, se non nell’immaginario mainstream. Negare ciò significa spianare la strada alla disinformazione e al nichilismo culturale. E questo non è fare un grande servizio all’insegnamento della storia. O all’insegnamento in generale.
L’identità italiana, tra varietà e continuità
L’Italia è un caso unico per varietà culturale, certo. Ma proprio per questo ha costruito nel tempo un’identità nazionale che tiene insieme le diversità regionali in un progetto comune: c’è varietà ma anche e soprattutto un innegabile continuità. Negare questa identità oggi significa lasciare il campo al caos globale, dove il mercato e la tecnica sostituiscono le radici, e i popoli diventano masse sradicate, manipolabili e senza volontà politica. Come ricordava Giuseppe Prezzolini, senza una nazione forte non ci sono né libertà né progresso, ma solo servitù. E su questo punto è bene ricordare anche Carl Schmitt, che spiegava come ogni comunità politica debba definire chiaramente il proprio confine tra “amico” e “nemico”, ossia tra ciò che le appartiene e ciò che le è estraneo. Senza questa distinzione non esiste comunità, né politica, né storia, né cultura: esiste solo amministrazione globale. In altre parole, senza identità non c’è decisione politica, non c’è sovranità e non c’è comunità reale. Restano solo individui atomizzati, esposti al dominio dei poteri impersonali del mercato e della tecnica.
La pedagogia come potenza
Nel solco di questa riflessione si inserisce anche il pensiero di Dario Fabbri, noto analista geopolitico. Con il suo approccio realista, ricorda spesso che i popoli e le nazioni non sono categorie culturali astratte, ma soggetti geopolitici concreti, mossi da interessi e identità precise. La storia, per Fabbri, non è un gioco intellettuale, ma una lotta per lo spazio, la sicurezza e la proiezione di potenza. Ecco perché parlare di “ambiguità” o di “diluizione delle identità”, come propone Ginzburg, è un lusso che nessuna nazione può permettersi se vuole sopravvivere nel grande scontro globale. Ogni Stato educa i propri cittadini a riconoscersi come parte di un progetto collettivo, perché senza questa consapevolezza non si difendono confini, interessi, né esiste una politica estera autonoma. Per Fabbri, insomma, la geopolitica parte proprio dalla pedagogia nazionale: senza un senso di appartenenza radicato, non può esistere potenza. Chi non educa i giovani alla propria storia, alla propria cultura e alla propria identità, ma soprattutto alla loro dimensione conflittuale li condanna a diventare sudditi culturali e strategici di chi lo farà al posto loro. Non escludiamo che a qualcuno questo potrebbe decisamente piacere: chi non accetta l’agone della storia, è disposto a tutto pur di uscirne.
Un progetto storico consapevole
Insomma, i sragionamenti di Raimo e Ginzburg non devono farci prendere di riflesso una posizione senza senso: è vero l’identità non è un dato “statico”, ma un progetto storico consapevole, una forma di autoaffermazione destinata a proiettarsi nel tempo lungo. Non si capisce perchè secondo questi soggetti, questo equivalga sempre a doversi dissolvere invece di imboccare un percorso in altezza, magari verso un’identità europea “nativa”. Anzi, finisce sempre per essere un’invettiva contro l’eurocentrismo. In ogni caso, la civiltà che voglia sopravvivere deve custodire la propria continuità storica, non per nostalgia, ma per costruire futuro su basi radicate nel proprio passato. Rinunciare alla pedagogia nazionale, come suggeriscono oggi certi intellettuali semicolti, significa interrompere questa continuità e accettare la propria dissoluzione nel nulla globale. È un suicidio programmato. Se vogliamo evitare questo esito, dobbiamo tornare a educare le nuove generazioni al senso di appartenenza, destino e trascendenza storica. Che poi è la vera “tradizione italiana”, così come la intendeva Giovanni Gentile: non un’eredità da conservare sotto vetro, ma un compito da assumere ogni giorno, nella storia viva e concreta.
Sergio Filacchioni