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“È un santo, un apostolo!”

by Roberto Johnny Bresso
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Roma, 23 ago – “È un santo, un apostolo! Evviva il nostro direttore! Evviva!” urlavano a squarciagola Fantozzi e Filini alla presenza del Direttore Diego Catellani. Questa scena mi è tornata in mente ascoltando i peana che nei scorsi giorni si sono succeduti all’annuncio della scomparsa di Pippo Baudo, da parte dei media e di qualsiasi personaggio abbia avuto più o meno a che fare con lui. Di conseguenza il cittadino comune, ormai sempre più attento nel non passare da pecora nera, si è accodato alla pubblica beatificazione del personaggio, celebrandone i miracoli laici.

Pippo Baudo e la cultura pop

Tutta questa premessa non perché io voglia parlar male del Pippo Nazionale, anzi sarebbe ridicolo non riconoscerne una professionalità ed una preparazione fuori dal comune. Di fatto con lui finisce il periodo d’oro della televisione italiana, dopo le dipartite di Mike Bongiorno, Corrado Mantoni e Raimondo Vianello (dei quattro gli ultimi due mi erano decisamente più simpatici, ma questi sono gusti personali). Inoltre per me Pippo Baudo rappresenta il coro che in Fossa dei Leoni a Milano ho cantato per anni, quando al termine della strofa “dalla curva si alzerà…”, prima di urlare “la canzone degli ultrà!”, si cantava goliardicamente “Pippo Baudo e la Carrà!”, che dalla Rai erano passati alla corte di Berlusconi, quando ancora calcio e tele mercato erano roba seria che facevano veramente notizia, altro che plusvalenze e prestiti onerosi!

Baudo era colui che a Sanremo venne placcato da Mario Appignani, in arte Cavallo Pazzo, o che fermò il suicidio (realtà o farsa che fosse) di un tizio su un’impalcatura. Insomma, fa parte della nostra cultura pop e certi sketch li vedremo sempre con piacere e divertimento.

Santificazioni sistematiche

Detto questo, che ne so io o la maggior parte di coloro che ora ne tessono le lodi di che razza di persona fosse? Avrà avuto i suoi pregi ed i suoi difetti. Un po’ come chiunque. E francamente non mi interessa nemmeno approfondire la sua vita privata. Non era né un mio familiare, né un mio amico, né un mio conoscente. Eppure dal 2018 in Italia si è sviluppata quella che io chiamo la “sindrome di Fabrizio Frizzi”. Prima della scomparsa del noto conduttore romano, infatti, non si era mai assistito, nemmeno per personaggi di fama superiore, ad una così capillare e sistematica santificazione del defunto. Ricordo che rimasi molto colpito dal livello esagerato di iperbole e metafore a lui riservate, prontamente alimentate dalla massa, in una sorta di rito quasi religioso e messianico.

Probabilmente tutto ciò nacque per caso, grazie al fatto che ormai i social avevano raggiunto una così totale diffusione in ogni ceto sociale ed età anagrafica, fatto sta che da allora il modello si è ripetuto costantemente. La cosa, ahime, paradossale di tutto questo è che se tutti sono dei santi, dei geni, degli uomini senza macchia (a parte quando a lasciare questo mondo è qualche personaggio lontano dal politicamente corretto, sia chiaro), di fatto nessuno di loro lo è. Tutti sono uguali, di nessuno è possibile fare una valutazione obiettiva, sincera. E questa cosa nemmeno può giovare alla memoria del personaggio, visto che diventa un tutt’uno indistinguibile dagli altri.

Un santo? Ai posteri l’ardua sentenza

E pensare che, invece, Alessandro Manzoni, nel suo Il cinque maggio, di Napoleone Bonaparte scriveva “Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”. Oggi questa affermazione suonerebbe blasfema: come osava pretendere che ci volesse del tempo per valutare l’operato di una persona? Siamo nella “società fast food”: terminato l’elogio di Pippo Baudo, attendiamo il prossimo personaggio per ripetere ossessivamente le stesse medesime banalità.

Roberto Johnny Bresso

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