Roma, 8 sett – Quando Fernand Braudel pubblicò nel 1977 La Méditerranée l’espace et l’histoire, non scrisse semplicemente un libro di storia. Mise in campo un metodo e un modo di guardare al passato che, ancora oggi, conserva una forza sorprendente. La sua idea di longue durée – la lunga durata – ci ricorda che le vicende umane non si esauriscono negli eventi effimeri, ma si radicano in strutture profonde: la geografia, il clima, l’economia, le mentalità collettive. È in questo livello profondo, apparentemente immobile, che si decide il destino dei popoli.
Il Mediterraneo come spazio aperto
Il cuore dell’analisi braudeliana sta nella categoria della longue durée: il tempo delle strutture lente, delle geografie umane e ambientali che sopravvivono ai regni e alle guerre. Il Mediterraneo vive sotto il ritmo doppio del clima – la “respirazione” fra Atlantico e Sahara – fatto di estati secche, inverni tempestosi, venti di mistral e bora, piogge torrenziali che modellano i suoli e condizionano le economie. La terra è una conquista, mai un dono: suoli magri, pendii strappati alle montagne, bonifiche e irrigazioni che fanno nascere miracoli come la Huerta di Valencia o la Conca d’Oro di Palermo. La sopravvivenza stessa dipende dall’ostinazione degli uomini che piegano il paesaggio. Insomma il Mediterraneo, per Braudel, non è mai stato soltanto un mare: è un laboratorio di civiltà, un mosaico stratificato di paesaggi, rotte e culture. Mille cose insieme, scriveva, non una ma innumerevoli storie intrecciate. In questo spazio l’Italia ha sempre rappresentato l’asse naturale, il ponte e al tempo stesso la cerniera tra Oriente e Occidente, tra Europa e Africa. Ogni volta che la nostra penisola ha saputo assumere consapevolmente questo ruolo, si è affermata come potenza; ogni volta che l’ha smarrito, è scivolata in posizione subalterna. Proprio qui l’opera di Braudel ci aiuta a smontare un cliché ampliamente diffuso: quello che oppone l’identità mediterranea dell’Italia all’identità europea, come se fossimo condannati a scegliere tra il nostro mare e il continente “dei tedeschi” e “dei francesi”. Nulla di più fuorviante. Per Braudel il Mediterraneo è sempre stato aperto e connesso, legato all’Atlantico, al Baltico, all’Oceano Indiano. La sua storia non è mai stata quella di un mare chiuso, ma di un crocevia che unisce mondi diversi.
L’Italia e la civiltà europea
In questa prospettiva, l’Italia non è in rottura con l’Europa, ma suo ponte naturale: è il Mediterraneo a dare profondità europea al continente, così come l’Europa continentale dà forza e retroterra al Mediterraneo. Pensare l’una cosa contro l’altra significa mutilare la nostra stessa identità. Le civiltà che hanno dominato il mare nostrum – da Roma a Bisanzio, dalla Spagna all’Inghilterra – hanno sempre avuto bisogno di un retroterra più ampio del solo bacino mediterraneo. Il Mediterraneo è dunque cuore della civiltà europea, non suo opposto: e l’Italia, per vocazione e geografia, può esercitare un ruolo di potenza solo se si concepisce come cerniera fra mare e continente, non come isola autoreferenziale. Se la lezione di Braudel vale ancora oggi, lo è perché ci obbliga a guardare al Mediterraneo non come ad alibi per la nostra marginalità, ma come al cuore della nostra ragione di esistere politica. Le fragilità alimentari di ieri, legate alla triade grano-olivo-vite, si ripresentano oggi sotto forma di dipendenze energetiche e logistiche. Le mobilità umane, un tempo fatte di transumanze e scambi stagionali, si ripropongono come flussi migratori incontrollati. La frattura tra Est e Ovest, che correva lungo l’asse degli Stretti, continua a manifestarsi in nuove forme di conflitto geopolitico. Nulla è davvero nuovo: ciò che muta è la superficie degli eventi, non le strutture di fondo.
Pensare nella lunga durata
Pensare in termini di lunga durata significa allora riconoscere che l’Italia non può limitarsi a vivere alla giornata, prigioniera delle emergenze. Il Mediterraneo deve tornare a essere la base di una strategia, non un recinto in cui difendersi. Ma il mare nostrum da solo non basta: come già mostrava la prospettiva braudeliana della géohistoire, nessuno spazio è isolato. Il Mediterraneo apre verso l’Africa e verso l’America Latina, due aree dove la nostra presenza non solo è possibile, ma necessaria. In Africa si gioca oggi una partita decisiva. Non è un continente condannato al caos, come ci viene spesso raccontato: è piuttosto un terreno di trasformazioni demografiche e urbane, in cui l’intervento europeo potrebbe trasformare il surplus umano in opportunità di sviluppo. Non bastano barriere o slogan securitari: serve una presenza industriale, educativa, infrastrutturale che colmi i vuoti lasciati liberi da altri attori globali. Dall’altra parte dell’Atlantico, l’America Latina custodisce un patrimonio umano e culturale che ci riguarda direttamente: decine di milioni di oriundi italiani, comunità che hanno mantenuto memoria e legame con la madrepatria. È un capitale identitario e politico che abbiamo trascurato, permettendo ad altri di occuparne lo spazio. Eppure proprio lì, dove la nostra impronta è ancora viva, potremmo ritrovare una proiezione globale, un modo di uscire dal provincialismo e rimettere in gioco la nostra vocazione talassocratica.
Il Mediterraneo non è un paradiso perduto
Braudel ci insegna che la storia non è mai chiusa: è un campo di possibilità. Gli eventi possono sconvolgere gli equilibri, ma sotto la superficie resta sempre una trama di strutture che si presta a essere riattivata. Se il tavolo da gioco ci sembra immobile non è perchè lo sia davvero, ma perchè non stiamo guardando con la giusta visione. Il Mediterraneo resta uno spazio conflittuale esattamente come duemila anni fa, con buona pace di chi lo usa come feticcio di un multiculturalismo che se è esistito, non è mai stato “pacifico”, o che lo idealizza in una sorta di “eden perduto”. Lo scrive lo stesso Braudel: “Il mediterraneo non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità. Qui tutto ha dovuto essere costruito, spesso più faticosamente che altrove”. La partita quindi continua: chi ha visione riprende a giocare, colma i vuoti, plasma nuovi spazi. Così anche per l’Italia: la partita non è finita. Possiamo rassegnarci a essere periferia dell’Occidente, più atlantisti degli americani o più eurasiatici dei russi. Oppure possiamo tornare a essere ciò che la nostra geografia e la nostra storia ci impongono: una potenza mediterranea capace di proiettarsi oltre il Mediterraneo. La lunga durata, questa volta, non è solo una categoria storiografica: è la condizione della nostra sopravvivenza politica.
Sergio Filacchioni