Roma, 3 mar – Tra le coste africane e “l’altra” America ovvero l’Italia come talassocrazia in potenza: nel mare nostrum, oltre il Mediterraneo. Appunti sparsi per chi non è ancora morto nel Vecchio Continente, per tentare di squarciare il velo di Maya che confonde le idee a chi tende ad apprezzare troppo le irrituali smargiassate di pingui businessman d’Oltreoceano o, viceversa, a farsi irretire da ex agenti del Kgb. La via è sempre terza, e parte sempre da casa nostra.
Il frastuono e la forza tranquilla
Breve tuffo nel passato sempre presente. Sono le otto di mattina di un rovente 6 agosto nipponico. È il 1945 e in una casa di Hiroshima alcuni giocatori sono pronti a riprendere una lunga partita a Go, interrotta la sera precedente. All’improvviso una luce abbagliante, un boato, un urto terrificante. Per riferirsi a quanto accaduto, in Giappone verrà poi coniato un nuovo termine: pikadon, unione di due parole, pika (lampo) e don (tuono). Noi, pensandolo da ponente, ci riferiamo a quell’evento semplicemente parlando di “bomba atomica”. Sta di fatto che quella mattina, esattamente alle 8:15, i giocatori che fissavano le pietre sul goban, furono scagliati a terra dal pikadon. Il proprietario dell’abitazione in cui si trovavano morì sul colpo. I giocatori, pur feriti, sopravvissero. I vetri in frantumi ferirono gravemente alcuni degli spettatori e il drammatico urto spostò le pietre sul goban. Tutto finito? Niente affatto, poche ore dopo, la disposizione delle pietre fu ripristinata sul goban e gli stessi giocatori ripresero la loro partita. Per giorni, in silenzio. Pur circondati dalla devastazione, la ignorarono.
Cosa ci dice questa storia? Che tutto può accadere, ma nessun evento, per quanto nefasto, può cancellare una salda visione del mondo. Chi la conserva e sopravvive all’urto, è destinato a sedersi di nuovo al tavolo da gioco e a continuare la partita. Magari con altre armi e con diverse strategie. Come nel Go, ripartirà dal principio, ovvero dal vuoto da colmare. Beninteso, dal vuoto non dal nulla inafferrabile. E proverà ancora a (ri)occupare spazi, plasmando nuovi territori, altrimenti strutturati, altrimenti gestiti. Piccola curiosità: un goban, con l’esatta disposizione delle pietre al momento dell’esplosione della bomba atomica su Hiroshima, è conservato all’Imperial War Museum di Londra.
L’equivoco (anti)atlantista
Partiamo da qui, da una storiella misconosciuta, per stracciare finalmente un equivoco. L’atlantismo è gabbia ma non prigione, non per forza, almeno. Catena senz’altro reale, di vassalli che si pensano tali impugnando la spada se indotti dal sovrano. Ma il sovrano non vede tutto, non controlla tutto, non è interessato a tutto. Gli Stati Uniti non possono, né vogliono, supervisionare l’ovunque caotico. Per disinteresse e ruolo strategico ricalibrato in Baltico, Artico e Indo-Pacifico.
In quello che in geopolitica si è preso a chiamare “Caoslandia”, ci attende quindi una sfida per riaffermare la sfera di influenza italiana ed europea. Nel caso italiano – potrà apparire strabiliante agli occhi dei remissivi masochisti – partiamo da posizione di vantaggio: nessuno ci odia. È un vantaggio più unico che raro. Perché le altre nazioni europee avranno sempre il cappio del livore indotto in Africa e in Oriente, postcoloniale, quindi ancora attuale. All’Italia nessuno pone particolari vincoli, se non il nostro stolto rifiuto di leggerci protagonisti. In breve, orientare le vele dipende innanzitutto da noi.
Nel caso europeo, permane comunque un vantaggio: potremmo chiamarlo “plus culturale”. Per comprenderlo, in un qualunque sussidiario di geografia si indicherebbe allo studente il novero di usi e costumi, mode, cibi, stili di vita. In tal senso restiamo l’epicentro dello sguardo invidioso dell’altro mondo. Oltre le sciocchezze della decrescita infelice, dei tradizionalismi reazionari, dei devoti alla decadenza ineluttabile. La realtà ci dice ancora che nessuno vorrebbe vivere come un cinese o come un russo. E se l’american way of life è globale sogno e incubo al tempo stesso, l’Europa mantiene un appeal che altri faticheranno sempre ad avere.
Zavorre e scialuppe
Restano una serie di ostacoli. Innanzitutto abbiamo contribuito a destabilizzare le nostre frontiere marittime. Oltretutto proprio nelle aree adriatiche (sponda balcanica e in parte ionica) e nordafricane dalle quali premono la gran parte dei flussi migratori e da cui dobbiamo necessariamente ottenere forniture energetiche alternative a quelle russe. Siamo poi vittime di noi stessi. Per mancanza di coraggio, immobilismo Ue in Africa e Oriente Vicino. Scarsa lungimiranza, incapacità di attuare piani a lungo termine a causa di governi inesperti o poco duraturi, terreno perso in anni di scontri interni su problematiche tutto sommato marginali. Gioco del Go ci ricorda che la partita si è dunque complicata, tuttavia non è chiusa. Purché sia chiara la sfida che ci attende e l’obiettivo da centrare. Serve dunque mollare il cipiglio tattico e assumere il piglio strategico. Strada lunga e tortuosa, certamente, in ogni caso l’unica percorribile.
Possiamo insomma ancora colmare i vuoti, occupare gli spazi, proiettarci “oltre gli Stretti”. Per farlo, è indubbio, serve un’Europa forte. Attenzione però, ogni patto di collaborazione, qualunque alleanza, qualsivoglia opportunità di crescita, nasce da singola posizione di forza. Non è cioè automatismo implicito e quando lo è serve a poco, poiché implica egocentriche pugnalate alle spalle. La rilevanza di una qualunque nazione europea, in contesto extraeuropeo, è d’altronde potenzialmente un vantaggio anche per le altre nazioni continentali. Viceversa tutte le nazioni europee entrano in crisi. Esempio corrente: se la Francia perde terreno in Africa, o viene sostituita da altro Stato Ue oppure è un grosso guaio per ogni Stato europeo. Perché quel terreno africano verrà occupato da chi non ha interesse a far crescere il Vecchio Continente, semmai punta a indebolirlo. Concetto difficile da cogliere soltanto per chi oggi si butterebbe tra le braccia dell’astuto sciamano, verso est come verso ovest, senza mai pensarsi minimamente indipendente. Si finisce per essere più realisti del re, mutatis mutandis più putiniani di Putin o più fallaciani della Fallaci.
L’Italia e il Mediterraneo
La sfida che ci attende è globale. Transoceanica potremmo dire, perché in un mondo interconnesso sarebbe folle pensarsi meri guardiani di specchio d’acqua chiuso. E se recuperare terreno sulle sponde meridionali e levantine del Mare Nostrum è essenziale – pena sommovimenti ingestibili che stiamo già subendo – è “oltre gli Stretti” che dobbiamo proiettarci per essere attori protagonisti dell’attuale Grande Gioco senza frontiere. La nostra raison d’être è in realtà sempre stata oltre il Mediterraneo. Ma dove e come agire per crescere? Ovunque vi sia spazio d’inserimento, ma soprattutto in due macro-territori: Africa e Sudamerica.
La nostra America dimenticata: l’Italia oltre il Mediterraneo
Nel novembre 2023 Santiago Peña, presidente del Paraguay da appena 3 mesi, scelse l’Italia per il suo primo viaggio in Europa. “Perché abbiamo un ambizioso programma di sviluppo e cooperazione e crediamo che l’Italia sia strategica con la sua manifattura, il suo know how e le sue capacità di investire all’estero”, ebbe a dire Peña in quell’occasione. Per poi lanciare una frecciata a Bruxelles: “C’è un vuoto di ambizione da parte europea. La vostra industria e i nostri prodotti naturali sono un matrimonio naturale”. Dichiarazioni sfuggite ai più, ma che ci raccontano un Sudamerica che non guarda per forza di cose alla Cina o agli Stati Uniti. Al contrario, proprio le “vene aperte dell’America Latina”, come le definì Galeano, sembrano chiedere oggi un ritorno delle stesse potenze europee che la propaganda terzomondista ha bollato per decenni come unicamente “sfruttatrici”. Il Paraguay, si dirà, è poca cosa per invertire la rotta di quel continente. Eppure da qualche parte dovremmo pure iniziare e basterebbe osservare bene i dati per comprendere quanto scioccamente non puntiamo abbastanza sull’America Latina.
Quasi la metà degli uruguaiani (il 44%, per l’esattezza) ha origini italiane. Non a caso, proprio in Uruguay, nel 1938 fu avviata la costruzione della diga sul Rio Negro grazie ai finanziamentri del governo italiano. Risultato? La creazione dell’allora più grande lago artificiale del Sudamerica. In Argentina gli italiani rappresentano il primo gruppo etnico del Paese, con 20 milioni di persone. Più del 50% della popolazione argentina riconosce una qualche discendenza da antenati italiani. In Brasile il 15% della popolazione brasiliana è di origine italiana, circa 30 milioni di persone. Si tratta della più numerosa popolazione di oriundi italiani nel mondo.
In America Latina nessuno ci odia perché l’America, latina appunto, siamo noi. Ne consegue la necessità di non perdere ulteriore terreno. Come? Incrementando i partenariati economici, aprendo scuole di lingua italiana, sviluppando la cooperazione internazionale. E ancora aumentando i voli diretti ad oggi scarsi e sin troppo costosi. Nonché investendo maggiormente nel continente latinoamericano, come giustamente chiesto dal presidente paraguaiano.
L’Italia nel Mediterraneo: il mal d’Africa
Ma perché poi investire in Africa, dove stereotipo vuole che nulla è stabile e sicuro? Perché non abbiamo alternative, ne va della nostra sopravvivenza. Machiavelli ci ricorda che in ogni caso “non si debbe mai lasciare seguire uno disordine per fuggire una guerra, perché non la si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio”. Ora, intendiamoci, non è affatto vero che le migrazioni dall’Africa siano destinate ad aumentare ad infinitum, non per forza almeno. Stiamo ai dati, anche in questo caso, dal Maghreb al Sudafrica la natalità non è più altissima come nel recente passato, è medio-alta. Questo perché l’Africa urbana inizia a fare meno figli dell’Africa rurale, come ben spiegato da Federico Rampini nel suo ultimo saggio La speranza africana. Nessun fenomeno di massa è dunque già scritto, non esiste alcun determinismo demografico. Ciononostante il problema non si affronta sic et simpliciter erigendo barriere (Ceuta e Melilla insegnano), così come è piuttosto risibile ragionare di blocco degli sbarchi se prima non lavoriamo alla radice del dramma.
L’Europa è quindi chiamata a intervenire “verso” l’Africa partendo da appositi programmi di remigrazione e “in” Africa con le proprie industrie e con piani mirati di scolarizzazione. Con un approccio cioè ben diverso da quello messo in campo fino ad ora. Con le industrie perché il surplus di manodopera africana è una risorsa soltanto se utilizzata in Africa (con i limiti del mero economicismo lo avevano capito anche i marxisti, quando ancora si attenevano agli scritti scarlatti marxiani e non si erano persi nel fucsia no borders). Attraverso la scolarizzazione perché se le ragazze vanno a scuola banalmente si sposano più tardi e iniziano più tardi a lavorare, di conseguenza fanno meno figli. La Cina, pur rapace, lo ha capito da tempo, noi no. Ricordiamoci però la lezione del Go: siamo sempre in tempo per (ri)occupare spazi e plasmare nuovi territori. Dipende tutto da noi, dalla nostra volontà di tornare potenza.
Eugenio Palazzini