Roma, 23 set – Una mobilitazione imponente, capillare, organizzata e in molti casi violenta ha attraversato ieri l’Italia da nord a sud. Decine di migliaia di manifestanti hanno risposto all’appello dei sindacati di base e di varie sigle studentesche in sostegno al popolo palestinese. Il risultato: autostrade bloccate, stazioni assaltate, porti paralizzati, scontri con la polizia. Ma al di là dei danni materiali e dei disagi, ciò che resta in sospeso è una domanda politica: chi trae davvero vantaggio dalle azioni di protesta antifa’?
Cronaca di una giornata antifa’
Il cuore della protesta è stato Roma, dove oltre 20.000 manifestanti hanno invaso piazza dei Cinquecento davanti alla Stazione Termini, per poi occupare la Tangenziale Est. Il corteo si è concluso con l’occupazione della facoltà di Lettere e Filosofia alla Sapienza, tra cori contro Israele e la rettrice Antonella Polimeni. A Milano, invece, si sono vissuti i momenti più duri: pesanti scontri alla Stazione Centrale, dove gruppi di manifestanti hanno divelto vetrate, lanciato oggetti contro le forze dell’ordine e affrontato le cariche della polizia. Turisti e pendolari sono stati evacuati dall’area commerciale, mentre la circolazione ferroviaria ha subito ritardi e cancellazioni. Situazione simile a Bologna, dove il corteo ha fatto irruzione sulla tangenziale e sull’autostrada A14, bloccando completamente la viabilità. La polizia è intervenuta con idranti e lacrimogeni, otto i fermati. Scontri e disordini anche a Torino, dove i manifestanti hanno occupato i binari tra Porta Nuova e Lingotto, a Trieste, con lanci di pietre contro la polizia nei pressi del porto, e a Firenze, dove un gruppo ha cercato di entrare nella sede della Leonardo a Campi Bisenzio. A Brescia, tafferugli in serata nei pressi della stazione. A Livorno e Genova, i porti sono stati bloccati per ore. Il bilancio finale parla di oltre 60 agenti feriti, decine di manifestanti contusi o fermati e un Paese sostanzialmente paralizzato per ore. Ma mentre tutto questo accadeva, Israele – e la sua narrazione – non subivano alcun danno. Anzi. Alla fine, gli “antifa” fanno un doppio favore: legittimano Israele nel racconto internazionale e offrono pretesti al governo per blindare lo Stato. I primi a uscirne rafforzati saranno Tel Aviv e il Viminale. Gli ultimi a pagarne il prezzo, come sempre, saranno loro.
L’antagonismo si prende la scena
Di fronte alla complessità del conflitto israelo-palestinese, molte delle proteste italiane sembrano rispondere più a esigenze simboliche che a una reale strategia politica. L’impostazione ideologica resta quella di sempre: antisionismo generico, antifascismo applicato a Israele, e una versione mitologica della “resistenza palestinese”, ma completamente decontestualizzata. Invece di colpire bersagli simbolici legati realmente al potere israeliano in Italia – come ambasciate, rappresentanze economiche o diplomatiche – la protesta ha scelto di riversarsi contro infrastrutture italiane, colpendo cittadini, lavoratori e servizi pubblici. Una scelta che indebolisce il messaggio e rafforza l’equazione che Israele da anni tenta di far passare: Palestina = caos, Palestina = violenza, Palestina = instabilità. Non è un caso che nelle stesse ore in cui si sfilava per Gaza, le immagini di vetrine spaccate, stazioni assaltate e poliziotti feriti rimbalzavano su media internazionali. Il danno è duplice: alla credibilità del movimento pro-Palestina in Occidente e, più profondamente, alla possibilità di separare la causa palestinese dalla galassia dell’attivismo antagonista europeo. Perchè la tragica verità è che Israele non ha bisogno di censurare, corrompere o minacciare. Le immagini che arrivano dalle piazze europee — isteriche, disordinate, violente — sono già materiale perfetto per alimentare il suo racconto civilizzatore. In questo schema, Israele è la diga della modernità, della razionalità e dell’Occidente, mentre chi lo contesta si presenta da solo come alleato di regimi fondamentalisti e movimenti fuori controllo. Il soft power israeliano funziona anche perché trova nel disordine altrui la sua migliore legittimazione. E la sinistra antagonista ne diventa un asset strategico.
“Siamo tutti palestinesi”
Ciò che emerge con forza, più della cronaca, è l’impianto ideologico delle mobilitazioni. La sinistra radicale occidentale – orfana da tempo di un popolo, di una classe e di un’identità nazionale – utilizza la causa palestinese come schermo per proiettare le proprie crisi irrisolte. Non è un caso che tra gli slogan più scanditi si sentisse “Siamo tutti palestinesi”, pronunciato spesso da chi contesta da anni l’idea stessa di nazione o di popolo. Si contesta il “genocidio”, ma si fa di tutto per delegittimare ogni azione diplomatica concreta, e si preferisce occupare università italiane o distruggere arredi pubblici. Si sventolano bandiere arcobaleno nei cortei pro-Gaza, ignorando completamente la cultura – molto meno tollerante – delle società arabe verso l’identità LGBTQ+. La contraddizione è evidente: si nega il principio di nazione quando si tratta dell’Italia, ma lo si rivendica per la Palestina. Si rifiuta la legittimità della sovranità quando è quella italiana, ma si difende quando è quella palestinese. Si è contro ogni esercito, contro ogni riarmo, contro ogni “guerra degli altri” – ma la guerra sul campo contro Israele la combattono milizie armate come Hamas ed Hezbollah, le stesse che poi vengono accusate di essere troppo estremiste. Ma poi la domanda sorge spontanea: chi dovrebbe combattere per la Palestina, la Sumud Flotilla?
L’ennesimo assist a Israele
Alla base, resta l’illusione che la questione israelo-palestinese possa offrire alla sinistra un nuovo terreno di lotta simbolica. L’etichetta “Israele fascista” funziona come grimaldello per rimettere in scena una guerra ideologica tutta interna all’Occidente. Al tempo stesso, si guarda alle seconde generazioni arabe presenti in Italia come possibili soggetti della “nuova resistenza”, in sostituzione di una gioventù europea che sta diventando minoranza in casa propria. Alla fine della giornata si contano i danni e le fin troppo ovvie polemiche, ma di fatto non resta una strategia, non resta una piattaforma politica chiara, non resta una richiesta seria alla comunità internazionale che possa legittimare perfino la violenza. Resta solo l’ennesimo assist a Israele. Mentre si sfilava a Roma, Tel Aviv già diffondeva le immagini degli scontri in Italia per dimostrare che la solidarietà alla Palestina è sinonimo di disordine e fanatismo. Ed è qui la vera posta in gioco. Perché la causa palestinese, nel suo dramma storico, ha bisogno di una legittimità internazionale che gli Stati europei solo ora stanno lentamente costruendo. Ma del resto si sa, quando l’Europa cerca di intraprendere un percorso, sono gli antifascisti i primi nemici.
Sergio Filacchioni