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Il codice e la spada: il duello e il coraggio di vivere per un’idea

by La Redazione
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In un’epoca che ha scisso la parola dalla responsabilità, l’antico rito dello scontro d’onore ci interroga: esiste ancora qualcosa per cui varrebbe la pena rischiare la pelle?

Roma, 23 ott – C’è un gesto antico, sospeso tra storia e leggenda, che per secoli ha rappresentato l’estremo, ordinato baluardo della responsabilità individuale: il duello. Non è un’esplosione di violenza, ma un’eccezione regolata. Non rifiuta il diritto, ma ne riconosce i limiti con glaciale precisione. Nasce là dove la legge, con tutta la sua astratta freddezza, non basta a sanare una ferita morale che brucia come un marchio sulla carne. Immaginate l’alba, in una radura fuori porta. L’aria è fredda, il metallo di più. Due uomini, nei loro abiti rigidi, incrociano lo sguardo. Un medico, dei padrini, il fruscio di una lama che esce dal fodero. Quel fendente non serve solo a trafiggere un corpo, ma a cancellare un’offesa.

A ripristinare, con un gesto di chirurgica determinazione, un ordine invisibile che vale più della vita stessa. È il duello, l’ultimo, disperato rito di un’umanità che credeva nell’onore come fondamento dell’Io. Un’umanità che, nel corso dei secoli, le spinte congiunte del cristianesimo, della borghesia e del progressismo hanno progressivamente trasformato, sostituendo l’antica figura dell’uomo nobile con quella di un individuo più docile, il conformista: ciò che Gaber, con ironia, aveva già intuito e che oggi vediamo moltiplicarsi nei salotti e nei social network.

La fine dell’Uomo Nobile e il declino contemporaneo

Il vero nodo, la questione culturale più urgente, è l’impossibilità di riconoscere un modello ideale di umanità nella società attuale. L’archetipo che prevale è quello di un individuo che rinuncia alla propria autonomia per affidarsi allo Stato, alla morale dominante, al giudizio della rete, sacrificando così gran parte della propria dignità personale. È un essere che rifugge dal rischio e dalla responsabilità diretta, preferendo rifugiarsi dietro la sicurezza delle regole piuttosto che assumersi il peso – talvolta drammatico, ma necessario – delle proprie scelte.

Questo tipo umano è il prodotto finale di una degenerazione bimillenaria. La cultura cristiana, con la sua esaltazione della mansuetudine attraverso la Regola d’oro del “non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te” e del “porgi l’altra guancia”, ha inferto due colpi letali all’ideale classico e pagano dell’uomo che si afferma. La borghesia ha proseguito l’opera, sostituendo l’onore con il contratto, il coraggio con il calcolo economico. Infine, la cultura progressista ha completato il lavoro, santificando il vittimismo e criminalizzando qualsiasi forma di fierezza individuale come “tossica”.

Il risultato è un deserto spirituale in cui l’unico ideale proposto è l’adattamento, il non creare problemi, il vivere una vita comoda e invischiata. A questo modello, noi opponiamo con fermezza la necessità di recuperare un’idea di nobiltà che fa perno sui concetti di onore e dignità. Non si tratta di un’appartenenza di sangue a una gens, bensì di un’appartenenza interiore, di spirito: quella a un carattere più alto, capace di incarnare l’ideale nietzschiano dell’uomo che vive come Wille zur Macht, pura affermazione di sé. Non un essere che attende il permesso di esistere, ma qualcuno che, con naturalezza, semplicemente è.

Gelli e l’Anatomia dell’Onore. Il duello come sistema

Per strappare il duello dal mondo dei romanzi e restituirgli la dignità di un’istituzione sociale, il riferimento imprescindibile è il Codice del Duello di Jacopo Gelli. Questo giurista italiano, nei primi decenni del Novecento, compie un’operazione fondamentale: sistematizza il duello come un dispositivo sociale in concorrenza con le leggi dello Stato. Il suo testo non è un manuale per spadaccini, ma un’analisi giuridico-antropologica di una giustizia parallela. Gelli è cristallino: il duello non può riguardare tutti, ma solo i gentiluomini. E qui sta il punto cruciale, l’abisso che ci separa dalla mentalità contemporanea.

Il gentiluomo non è un individuo “susceptible” o uno “snowflake” che pretende che il mondo si curi dei suoi sentimenti offesi. È l’esatto contrario. La sua superiore raffinatezza, sensibilità e intelligenza lo rendono sensibile a ferite che l’uomo comune non percepisce nemmeno. Ma, ed ecco il fulcro, se ne assume l’intera e sola responsabilità. Lo snowflake grida allo scandalo e chiede che sia la legge a proteggerlo. Il gentiluomo, al contrario, fa di tutto per condursi in modo da essere “al di sopra di ogni sospetto” e, solo nell’estremo caso in cui l’offesa sia pubblica e intollerabile, “sistema la questione” da sé, mettendo in gioco la propria vita. Il duello, per Gelli, non è uno strumento che conferisce onore, ma solo uno che lo ripristina. Non rende un cafone un gentiluomo; restituisce una condizione di integrità che deve già esistere. È un atto di giustizia personale nato da un’etica più severa, non un gesto di superbia.

Il rito e il sangue. La macchina perfetta del dovere

L’estrema, maniacale formalità è ciò che distingue il duello da una rissa. Padrini, testimoni, tentativi di conciliazione: senza questa ritualità, che mira a identificare da che parte stia la ragione, il duello avvantaggerebbe semplicemente i più forti. È un meccanismo di precisione, una macchina del dovere. Gelli distingue con cura i gradi dell’offesa e la proporzionale risposta:

– Duello al primo sangue: cessa al primo ferimento. È la via per offese di piccola entità, un monito più che una punizione.

– Duello al secondo sangue: si procede finché uno dei due non cede o ammette la sconfitta. Riservato a offese gravi all’onorabilità personale.

– Duello all’ultimo sangue: si conclude con la morte di uno dei due. È l’extrema ratio per le offese all’onore della famiglia.

Questa struttura mostra il duello come una sospensione ordinata della norma. È un rituale che, una volta concluso, cancella l’onta per sempre. È qui la differenza abissale con il “duello alla rusticana” dei ceti popolari e criminali – quello di “gettami la giacca e il coltello” –, meno strutturato e spesso non autoconclusivo, perché in assenza di una rigida formalizzazione, la faida può riesplodere. Il duello gentiluomo è un processo; quello alla rusticana è uno scontro in una guerra perpetua.

La parola come atto

Il cuore filosofico del duello, ciò che lo rende più attuale che mai nella nostra era digitale, è il rapporto totale e ineludibile tra la parola e l’azione, tra l’idea e il corpo. In un’epoca in cui le parole viaggiano come dati volatili attraverso i server, moltiplicabili all’infinito e cancellabili con un click, il duello rappresenta l’apice di una concezione opposta: la parola ha un peso specifico, è un atto concreto che impegna chi la pronuncia in prima persona. Ogni affermazione, ogni insulto, ogni accusa era, per l’uomo d’onore, un pezzo di sé stesso che metteva in circolazione. E come tale, ne era responsabile fino alle estreme conseguenze.

Oggi, al contrario, viviamo nel regno della parola-debito, della parola che non costa nulla a chi la emette. Un insulto su un social network è un’azione a credito: si ottiene il piacere momentaneo dell’aggressione o della denigrazione senza pagarne immediatamente il prezzo. Il prezzo, semmai, lo pagherà qualcun altro (un moderatore, un tribunale) o più spesso non verrà pagato affatto. Questa svalutazione della parola ha effetti devastanti sulla costruzione dell’identità della persona. Se le tue parole non ti costano nulla, non definiscono nulla di te. Sei inconsistente.

L’uomo del duello, al contrario, costruiva la sua identità proprio sulla corrispondenza assoluta tra ciò che era, ciò che diceva e ciò che era disposto a fare. La sua parola era un sigillo di credibilità perché era garantita dalla sua disponibilità a metterci la faccia, e oltre la faccia, la pelle. In questo senso, il duello non era solo un modo per rispondere a un’offesa, ma la manifestazione estrema di un’esistenza coerente e integra, in cui non c’era frattura tra l’interiorità e l’azione nel mondo. La nostra società, invece, premia la scissione: l’ipocrisia, il dire una cosa e farne un’altra, l’essere “fluidi” fino alla completa dissoluzione del carattere. Il rifiuto di ogni responsabilità per le proprie parole è il sintomo più chiaro di questa dissoluzione.

Lo Stato contro il gentiluomo

Il rapporto tra duello e legge è segnato da tensioni e progressive soppressioni. Nel periodo liberale prefascista esso era tollerato come un “vizio aristocratico”, pur entro regole precise. Con l’avvento del fascismo la situazione si fece più ambigua: il regime, pur celebrando onore, virilità e spirito militare, non poteva ammettere l’esistenza di una giustizia parallela a quella statale. Il monopolio della violenza – e persino dell’onore – doveva restare saldamente nelle mani dello Stato totalitario. Da qui una repressione sempre più esplicita, benché il duello continuasse, in forme sotterranee, anche durante il regime. La sua soppressione definitiva arrivò però solo in tempi recenti, nel 1999, con la depenalizzazione.

Questo atto, in apparenza liberale, fu in realtà l’estremo, definitivo colpo di grazia. Eliminando la fattispecie giuridica del “duello” dal Codice penale, il legislatore lo ha di fatto obliterato dalla coscienza sociale. Ha voluto evitare che, punendolo con norme specifiche, gli si conferisse una qualche, seppur negativa, dignità sociale. Oggi, il duello non esiste più per la legge. Esistono solo lesioni, omicidi, porto abusivo d’armi. Due adulti consenzienti che si affrontassero al “primo sangue” in un luogo privato tecnicamente non violerebbero una legge ad hoc, ma altre norme. Ma ormai l’ostacolo non è la legge: è la società stessa. Abbiamo completamente scollegato la parola dalla responsabilità. Un insulto su Twitter è solo pixels su uno schermo, non un’azione che può richiedere un conto in prima persona.

Oltre la lama

Il duello, nella sua forma storica, è irripetibile e forse non augurabile. Ma il “dispositivo sociale” che rappresenta – l’idea che esistano sfere della vita in cui la giustizia deve essere amministrata personalmente, al di fuori e al di sopra dello Stato – è di un’attualità bruciante. Il problema non è la pistola o la spada, è il principio. Come possiamo, oggi, ricreare dei “rituali sociali” che restituiscano peso alla nostra parola e alle nostre azioni? Come possiamo immaginare comunità, fisiche o ideali, fondate su codici di condotta non scritti ma condivisi, la cui violazione comporti conseguenze tangibili, se non materiali almeno sociali e simboliche? Non si tratta di inseguire nostalgici revival, ma di riconoscere che l’essere umano ha bisogno di confini chiari e di sfide significative attraverso cui definirsi.

L’“onore” contemporaneo potrebbe tradursi, ad esempio, nella lealtà assoluta a un patto di fiducia all’interno di un’istituzione o di un gruppo di lavoro: un vincolo che, se tradito, non trova soluzione in una disputa legale, ma in un immediato e inevitabile allontanamento dal gruppo. Potrebbe significare, nel dibattito delle idee, abbandonare la polemica anonima e velenosa a favore di uno scontro diretto e trasparente, in cui ciascuno risponde in prima persona delle proprie posizioni, accettando persino la possibilità di essere pubblicamente smentito.

Si tratterebbe, in fondo, di ricercare una “nuova asimmetria”: non più tra chi brandisce un’arma e chi no, ma tra chi ha il coraggio di esporsi e chi preferisce restare nell’ombra; tra chi vive le proprie idee come azioni e chi si limita a coltivarle come semplici parole. L’obiettivo non è imporre leggi o restrizioni, bensì segnare una distanza culturale e valoriale rispetto all’atteggiamento più conformista. Non attraverso esclusioni forzate, ma mediante codici di comportamento più rigorosi e un giudizio sociale capace di mettere in luce la fragilità e l’inconsistenza di certi atteggiamenti.

Il fantasma nell’etere

Il duello appartiene ormai al passato. Molti, con buone ragioni, diranno che è stato giusto così: si trattava infatti di una pratica rischiosa e profondamente legata a logiche classiste. Eppure, il suo fantasma ci osserva dalle nebbie di quella radura. Ci interroga sulla nostra idea di coraggio, di dignità, di conflitto. Cosa siamo disposti a rischiare, oggi, per le nostre idee? La nostra reputazione? La nostra “faccia”? Abbiamo rimpiazzato il rischio della vita con il rischio del like, la ferita fisica con il risentimento psichico, il sibilo dell’acciaio con il clic di un mouse.

Non stiamo auspicando il ritorno alle lame. Sarebbe anacronistico e folle. Stiamo auspicando la resurrezione di quello “spirito aristocratico”. Contro la cultura dell’adattamento e del vittimismo, serve recuperare l’ideale di un uomo che, come scriveva Gelli, “non può rifugiare tutta la propria vita sotto la tutela statale”. Un uomo che sia signore di sé stesso, della propria parola e del proprio destino.

Forse l’uomo del duello non esiste più perché il suo mondo è stato sepolto. Ma la sua ombra, scomoda e affascinante, ci ricorda che essere uomini è stata, per un momento, una questione di stile fino all’estremo limite. Fino a quella stoccata nella luce dell’alba che non trafiggeva solo un uomo, ma sanciva il trionfo di un’idea sull’istinto di sopravvivenza. Un’idea sporca di sangue, forse, ma terribilmente pulita nelle sue intenzioni. L’unica, forse, degna di un uomo.

Questo articolo prende le mosse da una rilettura in chiave filosofica e politica delle analisi sul duello proposte dal canale YouTube Progetto Razzia e dal saggio “Elogio del Duello” di Bernard Lugan (edizioni Passaggio al Bosco), integrandole con una rilettura del “Codice del Duello” di Jacopo Gelli.

Marco Romano

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