Roma, 6 giu – Ottantuno anni fa, i “liberatori” sbarcavano in Normandia. Due giorni prima avevano occupato Roma. Nello stesso momento, i loro alleati russi sfondavano in Bielorussia. Così iniziava il capitolo finale della Seconda guerra mondiale: undici mesi di sangue e devastazione, prima della sconfitta definitiva non solo di due nazioni, ma di un intero continente. E si deve continuare a ribadirlo: quello che oggi viene celebrato con fanfare e bandiere non fu una liberazione. Fu un’invasione. Peggio: fu la fine dell’Europa.
Le ultime ore dell’Europa
A raccontarlo senza infingimenti è Le ultime ore dell’Europa di Adriano Romualdi. Un testo divenuto “sacro” per intere generazioni della destra radicale. Un libro scomodo, rimosso, perché rompe l’ipnosi collettiva della retorica postbellica. Per Romualdi, il 6 giugno 1944 non segna l’inizio della libertà, ma l’alba della “catastrofe dell’Europa”. Da Ovest avanzavano le armate del dollaro, da Est la “valanga umana” del comunismo. A spartirsi il continente, “i fratelli dell’usura e della tirannide”: il capitalcomunismo a trazione sovranazionale. Ma attenzione: Romualdi non scrive un trattato geopolitico né un’analisi economica. Chi si ostina a smontare con tecnicismi il termine “capitalcomunismo” non ne coglie la portata simbolica e tragica. Questo libro vuole restituire dignità alla lotta di quegli uomini che finirono dalla “parte sbagliata” – come ancora oggi qualcuno si ostina a dire. “Una lotta senza speranza, aspra, sanguinosa… valorosamente sostenuta da tutti i giovani soldati che avevano preferito restare fedeli fino in fondo alla propria scelta“. Da Berlino a Budapest, da Narvik alle Ardenne, l’Europa intera bruciava. Solo un’idea sopravvivrà, nonostante tutto. Un’idea per rispondere alla domanda: “e dopo?”.
Genealogia dei nostri tempi
Il “dopo” non fu migliore. Il continente fu colonizzato, e culturalmente sterilizzato. “Spiritualizzato” (o meglio: conformato) dall’America a Ovest, brutalizzato dai Sovietici a Est. Poi l’infezione più devastante: la dissoluzione dell’identità europea. I suoi primi sintomi si manifestano con la Scuola di Francoforte, per poi consolidarsi fino all’Open Society: il trionfo del relativismo, del decostruzionismo identitario, del cosmopolitismo mercantile, del globalismo apolide. E infine i contraccolpi: declino antropologico, crisi demografica, dissoluzione economica. L’Europa muore. Letteralmente. Ma non serve inventarsi teorie del complotto. Basta guardare la genealogia del nostro presente. La Seconda guerra mondiale non è “passato”: è l’avverarsi dei nostri tempi, l’urto fra due visioni inconciliabili. Come scrive Romualdi in Finis Europae, “le vecchie grandi democrazie e il comunismo alleati avevano vinto. I popoli, si disse, erano liberi. Ma l’Europa era finita. La sua indipendenza era morta per sempre”.
La disfatta del continente
Eppure, proprio questo cadavere fa ancora paura. Perché anche in coma, l’Europa conserva il seme della potenza. Oggi è ancora sotto attacco, da Est, da Sud, da Ovest, dall’interno: malmenata dagli americani, aggredita dai russi, minacciata dagli jihadisti, condizionata dai cinesi, ricattata sul piano energetico, svuotata da classi dirigenti prive di visione. Se prima era solo un sospetto, oggi possiamo dirlo con chiarezza: il D-Day non fu la sconfitta di due nazioni, ma la disfatta dell’intero continente. Anche le “vincitrici”, come Francia e Gran Bretagna, ne uscirono mutilate nella sovranità e nella grandezza. E non ce lo stiamo inventando. Già il 6 giugno 1964, De Gaulle vietava ogni cerimonia ufficiale per il ventennale dello sbarco. Non per capriccio, ma per dignità nazionale. Lo disse chiaramente: “Con questo sbarco, gli angloamericani hanno voluto invaderci più che liberarci“. E se perfino stamattina uno scherzoso Trump ha ricordato al cancelliere tedesco Merz che il D-Day “non è stato un giorno piacevole per voi”, è perchè si tratta di una brutale verità. Che “fu la liberazione dalla dittatura nazista” sono rimaste solo le nostre cancellerie a crederlo.
Frantumare la menzogna del “bene che ha vinto sul male”
Ecco, allora, la realtà dietro la retorica delle celebrazioni: non fu una liberazione, ma l’installazione forzata di un padrone. Di una morale unica antifascista. Di un senso di colpa permanente. Per Romualdi – e per tutti coloro che vissero l’agonia dell’Europa – la vittoria degli Alleati non portò libertà, ma l’imposizione brutale di un nuovo ordine mondiale. Perché non lo vediamo più? Forse perché il crollo sovietico del 1989 ha sfumato i contorni. Forse perché ottant’anni hanno logorato anche le volontà vincitrici. Ma il peso di quella sconfitta non è svanito. Anzi: è aumentato. Per questo, ripercorrere la tragica epopea dei combattenti per l’onore dell’Europa non è solo un dovere doloroso, ma un atto di resistenza. È affermare la continuità ideale con chi cadde per un ordine alternativo, radicato nel sangue, nella civiltà, nella storia. Rammentare il 6 giugno con gli occhi di Romualdi significa frantumare la menzogna del “bene che ha vinto sul male”. Significa chiedere a noi stessi se abbiamo ancora negli occhi il sorriso del guerriero, e la forza per dire, con il grande Nietzsche: “Era questa la vita? Bene: ricominciamo.”
Sergio Filacchioni