Roma, 8 agosto – Alla Casa Bianca, Donald Trump ha accolto il presidente azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan per firmare quello che è stato presentato come uno “storico” trattato di pace tra i due Paesi.
Un accordo storico tra Armenia e Azerbaijan
Una firma solenne, sorrisi di circostanza, strette di mano davanti alle telecamere. Ma dietro la facciata patinata, per molti armeni e osservatori indipendenti, si nasconde una verità ben più amara: non è la pace, è la resa. Il conflitto tra Armenia e Azerbaijan non nasce ieri. Dal 1988, con il crollo dell’URSS, la contesa per il Nagorno-Karabakh – o Artsakh, come lo chiamano gli armeni – ha insanguinato il Caucaso meridionale. La guerra dei primi anni ’90 lasciò oltre 30.000 morti, e quella del 2020 – scatenata da Baku con il supporto militare diretto della Turchia – ne ha aggiunti altri 6.000, consegnando gran parte dell’enclave all’Azerbaijan. Da allora, la popolazione armena del Karabakh ha subito un assedio soffocante, culminato in un esodo di massa: oltre 150.000 cristiani armeni cacciati dalle proprie case.
La persecuzione dei cristiani in Armenia
Eppure, l’accordo firmato a Washington sembra ignorare del tutto questa realtà. Come ha denunciato Aram Hamparian, direttore esecutivo dell’Armenian National Committee of America (ANCA), il trattato non prevede alcun ritorno sicuro e dignitoso per gli sfollati, nessuna liberazione per i prigionieri di guerra armeni, nessuna riduzione della presenza militare azera in territorio armeno. Al contrario, introduce un elemento nuovo e inquietante: la costruzione di un “corridoio” di trasporto, battezzato pomposamente Trump Route for International Peace and Prosperity, su cui gli Stati Uniti avranno diritti esclusivi di sviluppo, da subaffittare a un consorzio commerciale.
Ecco come si seppellisce l’Artsakh
Per l’ANCA, è l’ennesima ricompensa concessa a chi ha aggredito, occupato e deportato. Non solo: questo “corridoio” potrebbe aggirare il controllo armeno e consolidare le pretese territoriali di Baku, aprendo una ferita geopolitica nel cuore del Caucaso. Una scelta che, secondo Hamparian, “normalizza la pulizia etnica” e mina la sicurezza e la sovranità dell’Armenia. Trump, che nel 2020 non mosse un dito per fermare l’offensiva azera, oggi si presenta come l’artefice della pace. Ma la pace vera richiede giustizia, e la giustizia, nel Caucaso, non si costruisce cancellando intere comunità dalla carta geografica. Se questo è l’accordo del secolo, per l’Armenia rischia di essere il colpo di grazia.
Sergio Filacchioni