Roma, 2 sett – Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale israeliano, ha reagito con toni apocalittici alla decisione del Belgio di riconoscere lo Stato di Palestina all’Assemblea generale dell’Onu di settembre. “I Paesi europei che si arrendono alle manipolazioni di Hamas finiranno per sperimentare il terrore in prima persona”, ha dichiarato, ammonendo Bruxelles e più in generale l’Europa come se stesse aprendo le porte a una minaccia sconosciuta. In realtà la sua minaccia è la solita arma retorica: usare il terrore come spauracchio per difendere l’indifendibile.
Ben-Gvir ha dimenticato qualcosa
Basterebbe sfogliare le cronache degli ultimi quindici anni per capire che il terrorismo in Europa non è un rischio ipotetico: è stata una realtà vissuta che ha lasciato una scia di sangue. Parigi piombata nell’incubo con Charlie Hebdo e il Bataclan, Bruxelles devastata dagli attentati del marzo 2016, Nizza falciata sulla Promenade des Anglais, Berlino colpita al mercatino di Natale, Londra e Manchester insanguinate, Barcellona terrorizzata sulla Rambla. Dal 2015 al 2019 l’Europa intera è stata scossa da una catena di attentati che hanno trasformato concerti, mercatini, vie dello shopping e chiese in scenari di guerra. Centinaia di morti e migliaia di feriti hanno segnato la quotidianità europea molto prima che qualcuno a Bruxelles pensasse di riconoscere lo Stato palestinese. Anzi, quando l’unica risposta delle classi dirigenti europee erano i gessetti colorati e Imagine, in Siria uomini e donne dell’Esercito Arabo Siriano cadevano (sotto embargo occidentale) per difendere arabi, cristiani e ortodossi dall’avanzata dei tagliagole.
L’eterna scusa della lotta al terrorismo
Dietro le parole di Ben-Gvir si cela la vera funzione politica della retorica sul terrorismo. Dal 2001, con l’11 settembre come atto fondativo, la “lotta al terrorismo” è diventata il dispositivo con cui si sono giustificate tutte le guerre di aggressione: dall’Iraq all’Afghanistan, fino alla Siria. È la chiave che ha permesso di sostenere milizie jihadiste in funzione anti-Assad, presentandole come “ribelli moderati”, salvo poi ritrovarsele trasformate in Al Qaeda e Isis, e di nuovo riciclate come interlocutori politici da Occidente, Tel Aviv e Mosca. È lo schema con cui si etichetta ogni atto di resistenza palestinese come “terrorismo” e ogni bombardamento israeliano come “difesa”. Altro che scontro di civiltà: in questi anni abbiamo visto convergere interessi che a parole si dicevano opposti – Stati Uniti, Israele, Turchia, monarchie del Golfo, e persino la Russia – tutti pronti a usare o tollerare il jihadismo come arma. La Siria spartita tra potenze, il Golan strappato a Damasco, il ritorno dei talebani a Kabul con la benedizione di Mosca: ogni tassello dimostra che il terrorismo è stato uno strumento nelle mani dei poteri globali che sicuramente non risiedono a Gaza City, Rafah o Ramallah.
Riconoscere la Palestina vuol dire rompere la narrazione
Per questo il riconoscimento della Palestina da parte del Belgio, dopo quello annunciato dalla Francia, rappresenta una rottura che va oltre il piano simbolico. Non è solo diplomazia: è un colpo all’architettura retorica che ha retto per vent’anni. Dire “Palestina Stato” significa sottrarsi alla gabbia binaria imposta da Israele: da una parte il “mondo libero” che combatte il terrorismo, dall’altra i barbari da reprimere. Significa affermare che non tutto può essere ridotto a Hamas, che l’occupazione non è “difesa”, che la violenza esercitata da chi si proclama vittima eterna è doppiamente ipocrita. Ben-Gvir ammonisce, riecheggiando le invettive di Lavrov, che l’Europa conoscerà il terrore se riconoscerà la Palestina. Ma il terrore lo conosciamo già, lo abbiamo vissuto nelle nostre città, e non perché Bruxelles o Parigi abbiano osato sfidare Tel Aviv, bensì perché l’Occidente – insieme a Israele – ha giocato con il fuoco del jihadismo per ridisegnare il Medio Oriente.
Il nodo vero
Oggi quel fuoco divampa a Gaza, in Cisgiordania, in Siria e minaccia il Libano, mentre l’Europa comincia timidamente a sganciarsi dall’unanimismo israelo-centrico. È questa la vera paura di Ben-Gvir: che l’Europa smetta di credere alla favola sionista e riconosca finalmente che il terrorismo non è una minaccia esterna, ma il prodotto delle stesse politiche di dominio che Israele ha imposto e da cui trae forza. Rompere con questa narrazione è il primo passo per spegnere davvero il fuoco che divora il Medio Oriente e avvelena l’Europa.
Vincenzo Monti